Si riapre il vaso di Pandora dei derivati acquistati dal Tesoro negli anni passati. La Corte dei Conti ieri ha messo sotto la lente in particolare i titoli sottoscritti con Morgan Stanley, che vennero chiusi anticipatamente tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012.

Secondo quanto riportato ieri sera da repubblica.it – ma la questione era già rimbalzata durante l’estate anche su altri organi di informazione – i magistrati contabili chiedono alla stessa banca americana e a quattro tra ex e attuali dirigenti del ministero dell’Economia un danno erariale per 4,1 miliardi.

La notizia era stata già indicata all’inizio di agosto dalla stessa Morgan Stanley che aveva fatto disclosure in occasione della trimestrale.

A ricevere un invito a dedurre sono stati, oltre alla banca d’affari, anche i dirigenti del Tesoro che hanno firmato (e poi chiuso) quei contratti: Maria Cannata, attuale direttore del debito pubblico e il suo predecessore Vincenzo La Via (oggi direttore generale del Tesoro). Oltre a loro l’invito è arrivato anche a Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro all’epoca della stipula dei contratti poi chiusi in anticipo (che vanno dal ’99 al 2005) e attuale vicepresidente europeo proprio di Morgan Stanley, e Vittorio Grilli, che era direttore generale quando i contratti vennero chiusi (oggi a JpMorgan). Tutti gli interessati, ciascuno per il proprio ruolo, stanno lavorando per inviare alla Corte dei Conti le proprie argomentazioni scritte.

Nel mirino dei magistrati contabili una clausola sospetta, quasi autovessatoria per il ministero che allora siglò quei contratti: in genere l’esposizione dello Stato nei confronti dei propri creditori si spalma in un periodo di medio o lungo termine, come avviene per qualsiasi mutuo, per tutelare la tenuta degli stessi conti pubblici e una loro minima stabilità.

La clausola sotto accusa (in gergo Ate, Additional termination events), invece, una volta attivata, imponeva alla Stato di chiudere tutta l’esposizione verso le diverse banche creditrici dall’oggi al domani.

In particolare, vera condizione capestro, Morgan Stanely poteva chiedere all’Italia la chiusura di tutte le posizioni debitorie qualora l’esposizione creditizia avesse superato un limite prestabilito.

Una condizione solo teorica? Niente affatto: la banca americana chiese allo Stato italiano di chiudere una posizione debitoria per ben 3,1 miliardi di euro in piena fase critica per il nostro Paese, e cioè a cavallo tra 2011 e 2012, quando lo spread era ancora a livelli siderali e il governo di Mario Monti cercava di tagliare il tagliabile (vedi ad esempio riforma Fornero) per riportare i conti sotto controllo.

Su richiesta del colosso finanziario Usa, Monti pagò quei 3,1 miliardi sull’unghia. E ancora, spiega la testata on line, alcuni contratti derivati stipulati dal Tesoro non avevano una finalità di sola copertura contro i rischi di cambio o di tasso, ma contenevano alcune caratteristiche speculative, vietate a un investitore pubblico.

Una di queste «scommesse», come le definisce la procura regionale Lazio della Corte dei conti, ha permesso a Morgan Stanley di incassare ben 1,3 miliardi a fronte di un esborso iniziale a favore del ministero del Tesoro di soli 47 milioni di euro (si tratta della vendita nel 2004 di una swaption collegata all’Interest Rate Swap a 30 anni da 3 miliardi).

Tra l’altro la pressione delle banche d’affari si è potuta esercitare negli anni con facilità grazie al fatto che il nostro Paese ha un enorme debito pubblico: se mi acquisti i derivati, sarò insomma più motivato a piazzare i tuoi titoli di Stato. Ma sono decisioni incaute che poi ti chiedono il conto tutto insieme.