In Senato dopo il passaggio della Camera è in discussione la riforma del terzo settore, un insieme di soggetti sociali di natura privata e volontaristica che opera tra lo Stato (primo settore) e il mercato del lavoro (secondo settore), per produrre gratuitamente beni e servizi a destinazione pubblica o collettiva (cooperative sociali, associazioni di promozione sociale, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative, onlus, ecc.).

La dimensione del terzo settore secondo l’Istat è davvero ragguardevole: 4,8 milioni di volontari, 681 mila dipendenti, 271 mila lavoratori esterni, 6 mila lavoratori temporanei. Il no profit occupa nel tessuto produttivo italiano il 6,4 per cento delle unità economiche attive e negli ultimi anni (2001-2011),ha registrato un aumento del 28 per cento degli organismi, del 39,4 per cento degli addetti, per un totale di più di circa 300 mila istituzioni no profit. Quindi un immenso serbatoio di solidarietà..

Ma quella del parlamento è «discussione»? In realtà no, il governo Renzi con il pretesto di accelerare l’iter legislativo sta sottraendo di fatto una grande questione politica ai legittimi poteri del Parlamento ma soprattutto a coloro che Ardigò chiamava i “mondi vitali” e che avrebbero il diritto di autodefinirsi. Si tratta, quindi, di un disegno di legge delega che il governo potrà interpretare con più decreti legislativi e con ampi margini di autonomia e rispetto ai quali le commissioni parlamentari potranno esprimere solo pareri consultivi (articolo 1).

Ma si tratta di «riforma»? A giudicare dal testo si tratta più di un «riordino» e di una «revisione», (la parola «riforma» non compare mai): in linea generale ribadisce principi ampiamente condivisibili di sussidiarietà, volontarietà, gratuità ma introducendo delle deroghe (articolo 2 punto g) che per le discontinuità che ammettono si configurano paradossalmente come autentici punti di controriforma ab-uso probabilmente di una premeditata strategia di riduzione della spesa welfaristica, soprattutto sociale e sanitaria (articolo 4 comma 1 lettera f).

Il punto critico fondamentale del disegno di delega è la trasformazione del concetto di impresa sociale (articolo 4). Nel testo in discussione si prevede la possibilità per le imprese sociali di reinvestire e ripartire gli utili, cosa finora vietata; quindi si ammette il carattere lucrativo in luogo del non profit (articolo 4 punto d). Oltre a ciò si prevede la possibilità, finora vietata, che negli organi di amministrazione delle imprese sociali possano far parte imprese private anche con fini di lucro e pubbliche amministrazioni. L’unico limite è il divieto di assumere la direzione, la presidenza e il controllo dell’impresa sociale stessa (articolo 4 punto f ).

Quindi discontinuità importanti rispetto alla tradizione sociale e altruistica del terzo settore. Non è un caso se la vicepresidente del Favo (Federazione associazioni volontariato in oncologia) afferma che la «riforma rischia di minare alla base l’identità e l’essenza del volontariato che è la gratuità, non solo come totale assenza di lucro ma come capacità del ”dono” di sé verso l’altro bisognoso» (Zambrini QS 20 maggio 2015).

Ma perché si vuole dare una natura economica alla solidarietà sociale? Recentemente il ministro Padoan, ha sostenuto che l’unica strada efficace per contenere la spesa pubblica è quella del contenimento dei costi dei servizi pubblici.

Questo è un passaggio strategico: si passerebbe dalla Spending Review, cioè da politiche contro le diseconomie della spesa pubblica, alla Costing Review cioè a politiche di riduzione del prezzo dei fattori produttivi impiegati nei servizi pubblici.

In questo quadro e rammentando che il costo più alto nella spesa pubblica è quello del lavoro, è del tutto evidente che l’uso no expensive del terzo settore equivarrebbe, di fatto, ad una sua consistente riduzione.

Se la definizione della natura economica di impresa sociale è finalizzata, come temo, ad abbassare la spesa pubblica, allora è probabile che l’intenzione del governo sia quella di ridurre i tre settori a due assimilando il terzo al secondo come mercato del lavoro low cost ed è probabile che la modalità di uso sia quella dell’outsourcing (approvvigionamento esterno) quindi ricorrendo a soggetti non pubblici. In questo modo si metterebbe in concorrenza il lavoro pubblico, con quello cooperativo e con quello volontario, creando le condizioni sia per una drastica riduzione del pubblico impiego sia per creare condizioni di dumping salariale per tenere basse le retribuzioni.

Sino ad ora in sanità la riduzione del costo del lavoro è stata fatta soprattutto con il blocco dei contratti. I redditi degli operatori nei servizi sanitari e sociali in 8 anni hanno perso il 13,2 per cento della retribuzione “reale”.
Dal 2006 al 2014 la paga oraria “reale” (deflazionata) è calata da 19,7 euro a 17,4 euro (fonte Banca d’Italia). Questo vuol dire che se si vuole seguire la linea del Costing Review di Padoan la strada che resta da prendere è quella di sostituire parte del lavoro pubblico con il lavoro volontario remunerato al costo più basso.

Se il governo alle strette con i conti dovesse avvalersi di questa politica, il nostro welfare sarebbe radicalmente controriformato.

Passerebbe così la demarcazione teorizzata dal Partito democratico tra abbienti e indigenti e gli indigenti tornerebbero nell’ambito della carità pubblica a buon mercato.

Rammento che in sanità il Documento di economia e finanza del governo ha previsto un definanziamento progressivo del sistema pubblico almeno fino al 2020 e che già ora esistono infermieri che lavorano a tutti gli effetti nei servizi pubblici ma come volontari e retribuiti con il rimborso spese per un valore corrispettivo di 2 euro e mezzo all’ora.