Quando la terza pagina dei giornali si trovava in terza pagina, la parola «cultura», sia nei titoli sia negli articoli, non compariva mai. C’era il numero 3, di foliazione, e basta: nessuna testatina che la distinguesse dalle altre. E se mancava nella terza, la parola «cultura», mancava anche nel resto del giornale, uno qualsiasi a 24 pagine di base. A differenza dei giornali attuali, per i quali ogni cosa che accade, pure la minutaglia di cronaca condominiale, è sempre un «fatto culturale». Fra le espressioni preconfezionate, di cui sono infarciti titoli e pezzi, viene inclusa la testatina «pagina culturale» che connota gli articoli un tempo collocati in terza pagina. La «cultura» dilaga nei giornali, le vengono concesse normalmente un paio di pagine al giorno e il sostantivo si fa declinare al plurale, «culture», campeggiando con lettere di scatola. Ma messo da parte l’abuso del termine, quali erano e quali sono, nella sostanza, gli argomenti di cultura nei giornali di ieri e di oggi? La terza pagina, riservata agli articoli che facevano «cultura», senza che fosse sbandierata a parole, era staccata dall’attualità, dalle problematiche degli accadimenti contingenti; era pervasa da una forma di sana evasività. In essa s’identificavano i lettori più informati e tradizionalisti: gli articoli venivano disposti secondo uno schema d’impaginazione classico, immediatamente riconoscibile. Il menabò prevedeva in apertura l’elzeviro. Si avvicendavano a scriverlo le firme da terza pagina: romanzieri, critici, artisti, cineasti che disquisivano e divagavano a tema libero padroneggiando un lessico erudito. Di spalla e di taglio andavano gli articoli di vario genere: diari di viaggio, ricostruzioni di avvenimenti storici, racconti brevi, corrispondenze con note di costume. Ogni pezzo aveva una lunghezza di almeno tre cartelle; il centro-pagina, su tre o quattro colonne, era riservato a una telefoto-notizia dal mondo e se cresceva un mezzo colonnino ci andava la rubrica in cui confluivano un buon libro, una mostra di pittura, una prima di teatro. I titoli dei pezzi, chiamati «titoli di varietà», non comunicavano notizie, ma lanciavano stereotipi. Gli autori di terza pagina dovevano saper «scrivere bene», ma eccedendo di parole enfatiche scivolavano nel vuoto del «bello scrivere». Sulle pagine culturali dei giornali d’oggi escono articoli di cronaca, corrispondenze dall’estero, anche pezzi di politica, redatti da editorialisti e collaboratori di nome. È indubbio che, essendo agganciate a fatti correnti, ci sia un utilizzo più giornalistico delle pagine di cultura. La quale, peraltro, è diventata un pentolone per recensioni: di libri, di mostre, di arti visive e di quant’altro. C’è l’intellettuale Tizio che presenta il libro dell’intellettuale Caio. Dopo un lasso di tempo, diciamo un mese, avviene la reciprocità: Caio scrive la presentazione del libro di Tizio. In ogni caso, si è persa la critica: per la recensione di un libro basta la descrizione del suo contenuto, ricavandola dalla sinossi del risvolto di copertina. Come si farebbe, se no, a stare dietro alle uscite dei libri che si sfornano come il pane? E tutto passa per «cultura». Ciò che conta è che se ne parli, sia sui giornali sia nei salotti televisivi. Per la lettura di un buon libro, poi, c’è sempre tempo.