A Milano, ci incontriamo nello studio del maestro Tullio Pericoli per un racconto della sua mostra, dal titolo Tullio Pericoli. Forme del paesaggio 1970-2018, che si è inaugurata presso Palazzo dei Capitani di Ascoli Piceno – vi rimarrà sino al maggio del 2020. Ad accompagnarla, c’è il bel catalogo dell’editore Quodlibet con prefazione di Salvatore Settis, uno scritto del curatore Claudio Cerritelli e una biografia ricostruita dalla scrittrice Silvia Ballestra. Al Salone del libro di Torino, invece, l’ultimo libro del pittore Incroci (Adelphi), in cui delinea 22 ritratti – da Montale a Eco – è stato al centro di un incontro con il pubblico proprio ieri, insieme a Matteo Codignola.

Scorrendo il suo paesaggio, ci si accorge che gli ultimi dipinti del 2018 percorsi dal senso di devastazione del terremoto del 2016 presenti nella prima stanza come «Terra fragile» o «Focolai», toccano circolarmente i suoi primi degli anni settanta come «Orogenesi» pieni di tinte terrose, limacciose; torna dopo un lungo periodo di segni aerei e ariosi, nelle profondità della terra?
I quadri di cui lei parla sono degli anni settanta e li ho esposti per l’insistenza del curatore Cerritelli, inizialmente ero dubbioso, ma poi rivedendoli ho ritrovato delle cose vicine agli ultimi lavori e difatti mi sono accorto mettendo assieme la mostra, che era davvero una specie di circolo che si chiudeva con gli ultimi quadri ispirati al terremoto e i primissimi. Quello che è poi presente nella mostra, è lo sforzo continuo di andare a cercare, come fanno tutti gli artisti, ciò che non si vede, la parola che non è stata scritta, il suono che non è stato sentito ma che si percepisce al di sotto della lingua parlata o del colore già usato. Quella parte che si intravede ma che non sempre è visibilissima. L’idea poi di presentare la mostra con un percorso a ritroso nel tempo mi è sembrata naturale, in fondo è la memoria a ripercorrere le cose all’indietro, quindi proseguendo nelle sale ed arrivando ai primi lavori, è come fare un gesto di archeologia, scavare e ritrovare il reperto anziché il contrario e cioè avere il reperto e cercare di capire che storia ha.

La superficie del suo paesaggio per lungo tempo così increspata, talvolta ariosa quasi degradante nel cielo è la porta d’accesso ad uno spazio che va a braccetto col tempo. Due mondi si vanno formando paralleli e ci interrogano, quello reale e quello fantastico…
Sì, questa è una cosa necessaria e naturale, parliamo del vedere. Come diceva Galileo, in una bellissima lettera, l’uomo ha due paia di occhi, quelli della fronte e quelli della mente, i primi osservano le cose che hanno davanti ma queste nel momento in cui sono viste, vengono trasmesse agli altri che abbiamo nascosti nella mente, i quali decifrano questa visione, attraverso il tempo sedimentato della memoria che la filtra e la traduce, ed allora tutto in questo modo diviene meno realistico e più interiore, allungato. Il reale e il fantastico per forza devono fondersi, a meno che non si faccia una rappresentazione realistica di quello che si vede ed allora si rimane un po’ all’esterno, in superficie.

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L’inizio del suo paesaggio ha un incipit molto originale. Fu Italo Pietra, direttore del giornale in cui lavorava, che le chiese di ritrarre il luogo della sua origine. Lei lo fece, prima però imprimendolo in una fotografia. Poi cosa successe?
Intanto sono tornato a Milano e ho fatto il quadro per il direttore e ricordo che il paesaggio del mio paese era il soggetto principale, ma in primissimo piano c’era un piccolo segno che tracciava il bordo del fiume dove ero andato e io ero seduto da una parte con le gambe accavallate, però con un piede in ammollo nell’acqua. Ed è come se quel piede fosse rimasto lì dentro, non si fosse mai mosso. Ma la vera rivelazione fu di capire quale fosse la differenza tra il guardare un paesaggio senza accorgersi di esserci dentro e invece inquadrarlo veramente. Mi accorsi che si potevano osservare le cose quasi estraendole come dettagli dalla realtà, difatti i miei quadri sono un po’ dei dettagli; l’orizzonte della mia tela non finisce lì dentro ma si dilata, ci sono i quattro lati da dipingere e così via.

Nei suoi quadri, i colli, le linee variopinte, gli smottamenti verso il vuoto, sembrano riprendere quel pensiero vasto leopardiano ma anche per precisione di dettaglio, certe finestre del rinascimento nordico. La sua mano è come se pescasse dentro il pozzo di un pensierosedimentato nei secoli e lo continuasse….
Una volta con Italo Calvino abbiamo intrapreso un dialogo che si intitolava Furti ad arte dove io raccontavo i miei,e lui i suoi, letterari, per un catalogo di una mostra che tenni a Milano nel 1980 dal titolo Rubare a Klee. Calvino dice appunto che l’arte viene sempre da altra arte, è come una catena che si annoda. È una tradizione che prego non venga cancellata, perché è veramente il nostro nutrimento.

La rassegna si chiude in maniera originale con due suoi autoritratti, lei in primo piano di spalle che guarda la sua mano che dipinge e il paesaggio che è lì davanti pronto a essere rimirato. Questa mano ha una sua autonomia?
Mi accorgo, nel mio lavoro, che in effetti la mano non ubbidisce alla mia testa, perché ha una sua propria testa, una sua memoria. E allora mi serve anche da alibi; se io voglio realizzare quel grande quadro e non riesco, è colpa della mia mano che non ha abilità, non ha intelligenza, non ha la capacità creativa ma talvolta questa cosa può essere una ricchezza perché lei fa delle cose che mentalmente non avrei mai pensato, quasi mi scavalca.

Dice Tabucchi su di lei: «ogni quadro è come se fosse un infinito minimo che Pericoli ha rinchiuso in un rettangolo, perché sa che con l’infinito occorre andarci piano…». Cosa pensa di questa affermazione?
Una volta ho fatto una mostra e ho scritto per il catalogo una paginetta, rubando una frase di Pessoa. Diceva: la natura è parte senza un tutto; e la mostra così si intitolava. Ecco io penso che viviamo in un mondo in cui il tutto ce lo siamo perso, non possiamo più afferrarlo. Allora dobbiamo fermarci alle parti, sapendo però che ogni frammento fa parte di questo tutto che, appunto, non sappiamo più cosa sia.

Tante tecniche ha sperimentato nel corso degli anni e sono ben visibili in questa personale…
L’uso di differenti materiali come l’acquerello, l’olio è una ricchezza tecnica ma anche mentale, gli ultimi quadri son fatti di calce ed intonaco come fossero a fresco perché rendono meglio l’idea del materiale calcareo delle costruzioni dei muri delle città frantumate.

Nella sua Colli del Tronto, dove torna periodicamente, ora dopo tanto quando ancora spalanca la sua vista su quella terra, cosa vede?
Quando si è inaugurata la mostra, nel marzo scorso, ho detto alcune parole anche su questi ritorni; all’inizio non andavo da vacanziere ma da controllore, tornavo a vedere cosa era successo, se qualcuno aveva spostato dei quadri o comprato dei libri o buttato dei vecchi. Scoprii tra l’altro dopo vent’anni che le colline si erano abbassate. Mi spiegarono che da quando si è passati dal solco orizzontale fatto dall’aratro mosso dai buoi a quello verticale dell’aratro meccanico tutto è cambiato, tali solchi hanno fatto dilavare la terra verso i fossi abbassando quindi il livello della collina. Non è solo una scoperta artistica, ma è pura osservazione di chi ha l’occhio abituato a vedere nei dettagli. Mi interessa partire da sotto per scoprire la forma del paesaggio attraverso i secoli, i millenni.