Fuori, suonano le trombe di una orchestra galleggiante in barca. Pensieri malinconici si rincorrono lungo l’Arsenale oscurato da un cielo spruzzato di nuvole grigie, fino a quando non si entra nel Padiglione Italia. Qui, si viene avvolti dal profumo di rabarbaro, di terra fresca e argillosa, di mattoni appena usciti dalle fornaci. E improvvisamente si viene trasportati in altri mondi, si comincia un viaggio che esce dai confini nazionali e si indirizza verso luoghi sconosciuti, spesso tragici, a volte comici. Vice Versa, la mostra a cura di Bartolomeo Pietromarchi (apertura al pubblico, come tutta la Biennale, il primo giugno per poi proseguire fino al 24 novembre) fa piazza pulita del caos sperimentato due anni fa e riesce a situarsi su un giusto equilibrio, quasi magico: l’acrobazia messa in atto è quella fra la pesantezza dei materiali utilizzati da molti degli artisti invitati, e l’invisibilità o la «clandestinità» di alcune opere.

Inedite topografie

Concepita come un percorso ideale, un atlante dell’arte italiana costellato di arcipelaghi e isole felici, la rassegna – che ha fatto ricorso anche al crowdfounding – si articola in sette ambienti e vede «camminare insieme» due artisti alla volta, accostati per assonanza emotiva, concettuale o ironica, a prescindere dall’appartenenza generazionale. «Una topografia inedita» l’ha definita il suo curatore, che ha dato spazio pieno alle corrispondenze impalpabili, poco tautologiche. E non si è sottratto alla performance: è stato lui il primo cliente del barbiere improvvisato appostato fra i rami di un albero: l’ha piazzato lì Sislej Xhafa (1970, Peja, Kosovo). Chiunque potrà tagliarsi i capelli, l’importante è che «le ciocche cadano dall’alto – spiega l’artista – proprio come avviene per le scelte sociali ed economiche dei governi. In ogni desiderio di trasformazione, le persone si trovano in bilico, anche la loro identità mostra incertezza». Poco oltre, Xhafa ha introdotto abusivamente un’opera non prevista: stretta in un corridoio, in un interstizio del padiglione, c’è una bara ricoperta di biglietti di lotterie che provengono da ogni parte del pianeta. «È quasi abbandonata in un cantuccio, rappresenta la follia dell’economia e il sogno che viene interrotto dalla morte, per me è qualcosa di illegale». L’installazione, Tractatus Logico Flat, può contare su due maestri ispiratori come Spinoza e Wittgenstein.

L’allestimento che procede in «fila per due» possiede diversi pregi rispetto l’affastellamento in cui tutti si pestano i piedi (a prescindere dalle «vicinanze» reali tra gli artisti indotti al confronto) e così chi si trovi a visitare il padiglione del Belpaese con antichi pregiudizi dovrà resettare le sue ragioni e potrà far pace con un’Italia bistrattata, riscoprire un «territorio dell’immaginario» che la politica mainstream non vuole proprio vedere. Infatti, non si vede per niente il paesaggio che Luca Vitone offre allo spettatore: l’artista nella sua Per l’eternità non espone nessun oggetto, solo un odore. Vuole offrire un «ritratto olfattivo» dell’amianto. Non ci sono polveri nocive nell’aria, ma soltanto un profumo di rabarbaro che è stato creato insieme a una profumiera, «un aroma dolciastro che poi si fa amaro e aspro – dice Vitone –. Graffia la gola. Sembra bucolico, rimanda ai filari di viti del Monferrato, io però volevo raccontare il paesaggio dell’eternit, che ha prodotto una tragedia, anche se quel materiale paradossalmente è stato risolutivo per le tecniche di costruzione». Il suo lavoro olfattivo si «diffonde» nell’aria in un dialogo muto con gli scatti di Luigi Ghirri, quel Viaggio in Italia del 1984 che tentò di rifondare un nuovo vocabolario della fotografia.

Al contrario, sono visibilissime le torri costruite da Francesco Arena (Brindisi, 1978) nel primo ambiente del Padiglione. Lui è in tandem con Fabio Mauri e con una performance storica come Ideologia e natura, del 1973, in cui la ragazza protagonista si spoglia e si riveste con la sua divisa fascista, in un ossessivo tentativo di liberarsi dall’oppressione, finendo poi sempre assoggettata. Dittature e disastri della storia, cancellazione della memoria e riappropriazione di sé sono anche i temi di Arena. Le sue torri sembrano architetture provvisorie, realizzate in legno, ma nascondono una verità inquietante. Ricolme di terra al loro interno, corrispondono – ognuna – a una fossa comune rintracciata dall’artista: Benedicta, in Piemonte, risalente al periodo partigiano, Burgos della guerra civile spagnola, Batajnica in Serbia e Polje in Kosovo sono le «stazioni-simbolo» delle atrocità compiute in nome dell’ideologia. «Nelle fosse si nascondeva, annientava l’identità dele persone. Io ho voluto spostare quella stessa terra e ricordare quei corpi». La terra, però, l’ha prelevata in Laguna, nella misura di centoquaranta tonnellate. Pesa tantissimo anche il piedistallo di marmo portato a Venezia da Marcello Maloberti, La voglia matta.

Le scorie della catalogazione

In cima a quel palcoscenico improbabile, come lo definisce l’artista stesso, alcuni ragazzi con degli asciugamani da mare propongono un paesaggio esotico, un’isola nell’isola. Vicino a quel paese precario, s’innalza la grande Cupola di Flavio Favelli: monumento gigantesco, ispirato a San Pietro, accompagnato dal nuovo melting pot della globalizzazione post Rinascimentale: una serie di piatti decorati dal titolo Rome Bone China.

Impressionante il grande pavimento dissestato di Elisabetta Benassi: su diecimila mattoni è scritta una storia drammatica, si va dalla alluvione del Polesine (l’argilla e i suoi detriti) ai codici alfanumerici che catalogano i detriti spaziali. Il tentativo di classificare eventi e lo spostamento fra cielo e terra è intenso, c’è anche tutta la distruttività insita nell’idea di catalogazione, non è un caso che l’artista si rivolga alle «scorie». Benassi dialoga con Gianfranco Baruchello e ospita sulla sua superficie una «camera delle meraviglie» dal sapore onirico. È un set teatrale che interseca natura e artificio, pratiche agricole e immaginazione in libertà. C’è pure una piccola serra di piantine innocue, che però vogliono rappresentare il giardino velenoso che Baruchello costruì a Berlino, a testimoniare «il mefitico agire della politica».