Quando ci risponde al telefono, Ignazio Camarda, ordinario di Botanica alla facoltà di Agraria dell’università di Sassari, è nel Montiferru accanto a ciò che resta dell’olivastro millenario di Sa tanca manna, nelle campagne alla periferia di Cuglieri, il paese più colpito dall’inferno di fuoco che ha devastato la Sardegna centro occidentale. Era un monumento naturale, l’olivastro di Cuglieri. Ora è carbonizzato, perduto per sempre, doloroso simbolo della tragedia ambientale, sociale ed economica che si è abbattuta sulla Sardegna.

Raro esempio di archeologia botanica, considerato dalla gente di Cuglieri una sorta di patriarca naturale, l’olivastro che ha attraversato il tempo ieri, in pochi minuti, è stato divorato dalle fiamme. “I grandi alberi millenari e centenari della Sardegna – dice Camarda – sono un patrimonio che va oltre i confini isolani con una notevole importanza per la storia naturale di tutto il Mediterraneo. Un grande albero è, prima di tutto, un micro-ecosistema. Un universo naturale in miniatura.

Il grande albero è anche una testimonianza ambientale, un sopravvissuto che può raccontare lunghi avvicendamenti temporali. L’olivastro di Cuglieri era uno dei più belli e preziosi, imponente con i suoi dieci metri di altezza. Ora è uno scheletro nero. Un disastro, la sua morte, dentro il disastro di questi giorni”.

Un disastro di proporzioni mai viste. Come si spiega?
Le cause immediate contano poco. L’incendio può essere partito da un incidente automobilistico, come dice la Protezione civile, oppure appiccato con dolo. Ma non dobbiamo fermarci a questo se vogliamo che tragedie del genere non si ripetano più. Dobbiamo guardare ai motivi profondi, alle radici strutturali. Che sono radici politiche.

Quali sono?
La causa principale è l’abbandono dei territori. Le zone interne dell’isola negli ultimi decenni hanno conosciuto un imponente movimento migratorio verso le coste. Un processo di urbanizzazione delle aree costiere che ha fatto crescere in fretta e male le città e spopolato le campagne. Da una parte un insensato consumo di suolo per attività edilizie e turistiche sulla costa e dall’altra paesi che si sono svuotati, tanti piccoli centri dove gli indicatori demografici predicono addirittura l’estinzione di alcuni di essi perché lì le morti sono stabilmente inferiori alle nascite. Spopolamento significa riduzione delle colture tradizionali – oliveti, campi di grano e vigneti – che sono una sorta di stabilizzatore degli equilibri ecologici, mancando il quale si ha una rinaturalizzazione del territorio, con prevalenza della macchia e dei boschi, che se non è governata può essere pericolosa. I boschi e la macchia sono abbandonati a se stessi. Il lavoro del Corpo forestale regionale non basta. E’ la presenza attiva dell’uomo, delle piccole comunità locali, il fattore che garantisce che il bosco e la macchia siano mantenuti puliti e in condizioni di controllo e di sicurezza.

D’altra parte lo spopolamento non è un fenomeno naturale come la pioggia. E’ prodotto da scelte precise.
Sì, scelte politiche che hanno spostato il baricentro delle attività economiche verso le coste, impoverendo di risorse e di progetti le zone interne della Sardegna. Per decenni si è andati avanti così. E ora si persevera nell’errore. Guardi al dibattito sul Recovery Fund. In Sardegna neanche un euro andrà speso per il ripopolamento delle zone interne. Si parla invece di infrastrutture nei trasporti e nell’energia che andranno a vantaggio, ancora una volta, dei grandi poli urbani.

C’entra qualcosa il mutamento climatico con l’apocalisse di questi giorni?
L’aumento delle temperature sicuramente ha svolto un ruolo. Ma questo effetto non sarebbe si combina con un modello di gestione del territorio che ha prodotto una vera e propria desertificazione economica, sociale e culturale. E’ a questo livello che bisogna innanzitutto intervenire.