Se vogliamo capire meglio l’Italia di oggi e pensare il suo futuro, è proprio dalle zone dell’Appennino colpite dal sisma che dobbiamo partire: dall’idea di solidarietà, di comunità, di sviluppo che si affermerà.

La ricostruzione delle aree colpite dal terremoto richiede un impegno straordinario e di lungo periodo. Uno sforzo non solo economico, ma anche emotivo e istituzionale di tutto il Paese, che deve andare al di là delle maggioranze e minoranze politiche di oggi e di domani, perché riguarda la prospettiva dell’Italia. Serve una visione strategica, che guardi innanzitutto alla coesione sociale e alla necessità che, insieme agli edifici, venga ricostruita e rilanciata l’economia. Non possiamo permetterci di realizzare insediamenti che, una volta pronti, restino deserti. Per scongiurare questo rischio occorre porre la massima attenzione al tessuto produttivo e alla tenuta delle comunità.

Nel ciclo di audizioni che la Commissione Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici sta svolgendo in merito alla conversione in legge del decreto terremoto, tutti i rappresentanti delle istituzioni e delle forze economiche e sociali, ci hanno chiesto di rafforzare le misure a sostegno dello sviluppo, proprio per evitare lo svuotamento delle zone del cratere. Si tratta in buona parte di piccoli comuni molti dei quali nei parchi nazionali dei Sibillini e del Gran Sasso Monti della Laga.

Uno dei settori più colpiti dal sisma che più volte ha fatto tremare Marche, Umbria, Lazio e Abruzzo, è quello dei beni culturali: solo le chiese distrutte o danneggiate sono oltre milleduecento. Parliamo di siti di alto valore artistico, storico, architettonico contenenti opere d’arte di valore: tele, affreschi, sculture di eccezionale bellezza e oggi gravemente danneggiati. Un patrimonio preziosissimo che ha bisogno di essere ripristinato; così come al più presto deve ripartire l’indotto. La stessa attività di recupero e di restauro può essere un’occasione per un’occupazione diffusa che si basa su uno dei fondamenti dell’identità del nostro Paese e di quei territori. Un’economia non delocalizzabile, alleata naturale della qualità e dei diritti.

A questo scopo ho proposto che, nel decreto, si stabilisca che la quota dello Stato dell’8×1000 venga destinato, per almeno 10 anni, alla ricostruzione e al restauro delle opere e degli edifici feriti. Si tratterebbe di circa 150/200 milioni l’anno che garantirebbero una fonte certa e sicura di finanziamenti. Una proposta che ha trovato l’immediata disponibilità del ministro Dario Franceschini.

La voce “beni culturali” è già presente nelle destinazioni della quota dello Stato dell’8×1000, ma si disperde fra le tante. Concentrare i fondi su un solo obiettivo renderebbe più efficace e trasparente il loro utilizzo, incentivando anche i cittadini a preferirlo nella dichiarazione dei redditi.

Secondo i dati della Fondazione Symbola, il nostro Paese deve alla filiera della cultura 89,7 mld di euro, il 6,1% della ricchezza prodotta nel nel 2015. Questi quasi 90 miliardi ne mettono in moto altri 160 nel resto dell’economia, con un effetto moltiplicatore di 1,8 per ogni euro prodotto dalla cultura. Si arriva così a 249,8 mld prodotti dall’intera filiera, il 17% della ricchezza nazionale. Cultura e creatività danno lavoro al 6,1% del totale degli occupati, 1,5 milioni di persone. A proposito di chi sostiene che con la cultura non si mangia.

Destinare l’8×1000 dello Stato ai beni culturali colpiti dal terremoto sarebbe una scelta che affronta il presente guardando al futuro. Un segnale di speranza e di fiducia per quelle comunità. Un’idea di Italia da far vivere proprio a partire dalle zone del sisma.