Che cosa ha fatto di tanto speciale il sindaco Marcel Le Pennec del comune di Moëlan-sur-Mer, sulla costa bretone, da attirare l’attenzione del ministero dell’agricoltura francese e l’appoggio della prefettura del Finistère che parla sul suo sito di «riconquista e valorizzazione di terre incolte»?

Semplice: ha fatto ricorso al Code rural (Codice rurale) per spingere oltre 400 proprietari di terreni incolti ad affidarli a chi si impegna a coltivare con il metodo biologico. Secondo l’articolo L 125-I del Codice, ogni persona fisica e morale può chiedere al prefetto l’autorizzazione a utilizzare appezzamenti non coltivati né curati da almeno tre anni. A Reporterre, sito francese di inchieste e reportage, una attivista dell’associazione Terre de Liens ha spiegato: «E’ una mossa che si può riprodurre dovunque; le tante terre incolte ostacolano l’autonomia alimentare basata sull’agricoltura biologica, locale e rispettosa della natura». Nel solo Finistère sono 60.000 gli ettari lasciati a se stessi. Certo, in parte sono diventati veri boschi, ma il resto è invaso da rovi. Fino agli anni 1970, a Moëlan-sur-Mer erano i pescatori a coltivare appezzamenti, fertilizzandoli con le alghe che si spiaggiavano.

Abbandonati, spezzettati, posseduti magari da diversi proprietari noncuranti che aspettano solo permessi di edificabilità per venderli: è il destino toccato negli ultimi decenni a tanti terreni privati, pur fertili. Finché non è stata rispolverata quella norma mai applicata del Codice rurale francese. Condizioni poste ai richiedenti delle terre: agricoltura bio e sbocchi locali. Agli abitanti del comune l’idea è piaciuta. E il Consiglio dipartimentale del Finistère a quel punto ha nominato una commissione per il censimento delle aree. In modo partecipato sono stati scelti 120 ettari – oltre 1200 appezzamenti –; un terzo delle terre agricole incolte del comune. Ed ecco che piccoli orticoltori come Julien Doineau, che non disponevano del denaro necessario ad acquistare un ettaro, hanno potuto ottenerlo. L’obiettivo è creare decine di posti di lavoro e produrre per il fabbisogno locale: le mense scolastiche e ospedaliere, un mercato bio. E naturalmente, i boschi che hanno preso il posto dei campi non vengono tagliati.

Niente esproprio, niente usucapione; l’idea è che le istituzioni pubbliche – comune, dipartimento, regione, prefettura – si uniscono e obbligano i proprietari a coltivare, o altrimenti affittare. Tutti contenti? Gli oppositori che hanno parlato di «progetto autoritario che ha usufruito di una legge antiquata» sono stati pochi. Ma oltre confine, che cosa suggerisce questa buona pratica pioniera?

In Italia, la legge 440 del 4 agosto 1978, «Norme per l’utilizzo delle terre incolte, abbandonate, insufficientemente coltivate», prevede che le regioni, tramite apposite commissioni, assegnino terreni pubblici e privati (escludendo cave e boschi) a richiedenti che si impegnano a coltivarli in forma singola o associata. La legge stabilisce il censimento dei terreni incolti, abbandonati e silenti (un bell’aggettivo per indicare gli spazi dei quali la proprietà non è facilmente rintracciabile). In tutta Italia sono svariati i casi di assegnazione di terre: quelle demaniali tramite bandi regionali, o quelle private sottratte alla criminalità organizzata. Ma la valorizzazione dei territori privati incolti servirebbe eccome. Tuttora.

L’articolo 17 della Dichiarazione Onu sui diritti dei contadini e delle altre persone che lavorano nelle aree rurali, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 2018 (l’Italia si è astenuta…), fa appello alla riforma agraria per «facilitare l’accesso ampio ed equo alle terre e alle altre risorse naturali». La Dichiarazione – che sancisce diritti umani esigibili – arriva alla fine di un percorso ventennale avviato dal sindacato rurale indonesiano Spi, aderente al movimento contadino internazionale La Via Campesina (Lvc).

L’Associazione rurale italiana (Ari), ugualmente membro di Lvc, sottolinea che il problema della concentrazione delle terre riguarda anche l’Europa, dove la metà di tutto il territorio agricolo è nelle mani di un numero ridotto di addetti (il 3%). «Sfatiamo la favola che i giovani stiano tornando massicciamente in agricoltura», ha detto l’esperto, attivista e contadino Antonio Onorati nella sua relazione all’assemblea 2020 dell’Ari. Grosse aziende si accaparrano le superfici disponibili, e anche la destinazione non agricola incide pesantemente. Sarà così finché non si adotteranno modalità organizzative alternative all’acquisto delle rete.
Un esempio sono le associazioni fondiarie. In Piemonte, le associazioni fondiarie (Asfo), per le quali la Regione ha ricevuto nel 2019 il Premio nazionale del paesaggio, da qualche anno sono un esperimento di gestione comunitaria del territorio funzionante in vari comuni – soprattutto montani – fra i quali Briga Alta (frazione Carnino) e Montemale (Cuneo). L’Asfo è una libera unione fra proprietari di terreni pubblici o privati per raggruppare aree agricole e consentirne un uso economico e produttivo attraverso la gestione associata delle attività agro-silvo-pastorali. Ognuno aderisce su base volontaria e gratuita e i beni non sono soggetti a usucapione. In modo partecipato si individuano modalità di cessione in affitto a soci o a esterni.

La legge regionale del Piemonte n. 21 del 2016 «Disposizioni per favorire la costituzione delle associazioni fondiarie e la valorizzazione dei terreni agroforestali», che all’articolo 1 intende «promuovere il recupero produttivo delle proprietà fondiarie frammentate e dei terreni incolti e abbandonati». Il principio è che «la Regione nel rispetto del diritto di sussidiarietà riconosce un ruolo prevalente alla gestione collettiva ed economica dei terreni agricoli e forestali». Gli enti locali hanno un ruolo centrale nella costituzione delle associazioni fondiarie. Sono previste anche alcune forme di finanziamento.

«L’aspetto importante è che le associazioni fondiarie piemontesi si riferiscono alla proprietà agricola privata; le terre pubbliche incolte e disponibili non sono sufficienti», spiega il presidente di Ari Fabrizio Garbarino, dottore forestale, contadino e allevatore cooperativo a Roccaverano (Asti). La differenza rispetto all’esperimento bretone è spiegata da Andrea Cavallero, docente alla facoltà di Agraria dell’università degli studi di Torino: «Là l’Associazione fondiaria è costituita con una tecnica impositiva e questo distingue la legge francese da quella piemontese, per la quale l’adesione è volontaria». Per legge, le Asfo come strumento di recupero e valorizzazione del patrimonio fondiario attuato attraverso la gestione associata delle attività agro-silvo-pastorali si pongono l’obiettivo della tutela dell’ambiente e del paesaggio, della prevenzione dei rischi idrogeologici e degli incendi, dell’incentivazione delle produzioni locali.

L’idea delle asfo è entrata anche in alcune proposte di legge (su www.agricolturacontadina.org), presentate da parlamentari di diversi gruppi, grazie al lavoro di pressione svolto dalla Campagna per una legge sull’agricoltura contadina in Italia.