Che difficoltà trovare la strada giusta per parlare di A nostra immagine Scultura in terracotta del Rinascimento da Donatello a Riccio, la mostra inauguratasi nel febbraio scorso al Museo Diocesano di Padova e che mercoledì ha finalmente riaperto le porte ai visitatori fino al 2 giungo prossimo. Forte è stata l’indecisione, alimentata sia dagli appunti scaturiti dall’unica visita fatta, sia dal successivo sfoglio del catalogo (Scripta Edizioni, pp. 293, euro 25,00, co-curato da Aldo Galli), affrontato ginnicamente, con un continuo avanti e indietro tra saggi, schede e l’utile Atlante della scultura padovana in terracotta del Rinascimento pubblicato in appendice.
Tentennavo, insomma, arrovellandomi in un coacervo di questioni: dare maggior risalto all’imprescindibilità di Donatello per la produzione fittile padovana o meglio concentrarsi subito sull’effettivo protagonista dell’intera iniziativa, ossia l’attuale asso-piglia-tutto Giovanni de Fondulis? E a tal proposito, nel focalizzarsi sui suoi lavori, cercare oppure no di mettere in gioco un po’ di quel sano senso critico utile per capire, e far capire quindi, se la lettura proposta dall’iniziativa funzioni o meno: se cioè il susseguirsi cronologico (dunque stilistico) delle sue opere risulti coerente, visto anche il numero di inediti a lui riferiti messi in gioco per l’occasione? E come giudicare, poi, Pietro Lombardo plasticatore ora che una terracotta gli è stata finalmente attribuita? Infine, cosa dire del ruolo dei rappresentanti ufficiali della compagine donatelliana in città – Giovanni da Pisa prima, Bartolomeo Bellano poi – e dell’ormai innominabile ex asso-piglia-tutto Giovanni Minelli, totalmente sparito dai radar? Insomma, basterebbe già una sequenza di domande così, credo, per fare intendere quanto stimolante sia la manifestazione organizzata da Andrea Nante e Carlo Cavalli con il fondamentale contributo dei membri del comitato scientifico e dell’Università degli Studi di Padova.
Il percorso è abbastanza lineare. Si parte, come da titolo, con Donatello, la cui decennale presenza in città (1443 ca.-1453) fu indiscutibilmente fondamentale e oltremodo corroborante per gli esiti della coroplastica padovana e, più in generale, dell’arte veneta tutta. Oltre al Gattamelata, ai bronzi del Santo e, rimanendo in città, al Crocifisso ligneo dei Servi, l’ineludibile Vasari ricorda come Donato modellò nello stesso periodo «molte (…) figure di terra e di stucco», destinate per gran parte al culto privato. In mostra questo versante della sua produzione è rappresentato da un’unica opera de lui-même, ma che opera: la cosiddetta Madonna Vettori del Louvre. Plasmata probabilmente in quel di Padova, essa si impone alla nostra attenzione tanto per la «modellazione sovrana» quanto «nella forza dirompente dell’invenzione», certamente più aulica e meno sdolcinata del «tipo di Verona» documentato in mostra da ben due copie. Il problema dell’attività fittile di Donatello – affrontato per via di Madonne principalmente – è al centro di un lungo e complesso saggio di Francesco Caglioti pubblicato in apertura di catalogo. Un contributo che tenta di fare il punto della situazione, chiarendo il ruolo del maestro toscano, quanto effettivamente gli si deve e quanto no, e affrontando puntualmente anche il nodo storiografico, riconoscendo via via meriti, demeriti, limiti.
Il magistero donatelliano si mantenne vivo a Padova anche grazie alla presenza continua in città di Giovanni di Francesco da Pisa, «compagno de Donatello, et suo arlevo». Assente purtroppo la Madonna con il Bambino del Kimbell Art Museum di Fort Worth – in origine nella chiesa di Lissaro di Mestrino, ed evocata in mostra dalla traduzione in gesso fattane verso il 1902, cioè prima della sua alienazione da parte del parroco –, l’opera che più fa intendere la centralità di questo artefice per gli artisti nati tra gli anni trenta e quaranta del Quattrocento è comunque la Pala Ovetari, facilmente visibile nella chiesa cittadina degli Eremitani (andate e ammirate). Osservando il brano centrale, raffigurante la Vergine con il piccolo Gesù, si intuisce quanto esso abbia realmente suggestionato il cremasco Giovanni de Fondulis, protagonista, come si è detto in apertura, dell’appuntamento.
Benché lo scritto di Marco Scansani, scaturito dalla sua tesi di dottorato, fornisca le coordinate basilari per intendere la rilevanza di De Fondulis nell’ambiente antenoreo della seconda metà del XV secolo, forse bisognava prima di tutto tentare di avere a Padova, o magari illustrarlo più ampiamente in catalogo, l’unico suo gruppo documentato: il Battesimo di Cristo tra i profeti Davide e Isaia (Bassano, Museo Civico), realizzato nel 1474. Senza questo certo trait d’union difficile non porsi qualche quesito, soprattutto dinanzi allo scarto linguistico che intercorre tra le due meravigliose Madonne con il Bambino di Santa Giustina e di San Nicolò, datate 1468-’70 circa (definirle però «giovanili» è quantomeno discutibile: Giovanni, qualora ne fosse realmente l’autore, aveva 33 anni all’epoca), e il gruppo di Pozzonovo di qualche anno successivo, indiscutibilmente più affine alla terracotta bassanese. Mi chiedo poi se non sia opportuno pensare anche per la Pietà di Camponogara un ampio intervento della bottega defonduliana (al cui interno crebbe, come è stato proposto, Antonio Antico, qui rappresentato dall’inedito San Bellino della chiesa di San Pietro, e forse futuro neo asso-piglia-tutto…) stante che l’attribuzione secca alla sua mano era stata proposta di recente confrontando il Cristo con il Redentore dei Musei Civici agli Eremitani, qui declassato, senza molte spiegazioni, a «Giovanni de Fondulis (e collaboratori)».
L’arte della terracotta avrà come suo successivo campione il famoso Andrea Riccio. Sarà lui, infatti, nato nel 1470, a traghettare questa gloriosa tradizione, unitamente a quella toreutica, verso il nuovo secolo. Se l’eco della lezione di De Fondulis è fortissimamente ravvisabile nel Cristo in pietà proveniente da Due Carrare, datato all’ultimo decennio del Quattrocento, manifesto del suo proprio linguaggio è il maturo Compianto (1530) eseguito per la chiesa cittadina di San Canziano e qui ricomposto eccezionalmente per la prima volta riunendo gli unici tre brani superstiti.
Dalle animate figure dei piccoli Gesù dei rilievi e dei gruppi posti in apertura, la mostra si chiude ponendoci dinanzi alla commovente rappresentazione di un Cristo giacente, con la serenità del suo volto opposta al dolore lancinante espresso dalle vicine due Marie. Quello che ci si offre, insomma, è anche l’immagine della nostra stessa esistenza, ineluttabilmente compressa tra la vita e la morte.