Anna Neri è bella, ricca e viziatissima. Quando muore suo marito la vita della donna pare destinata a un nuovo inizio fatto di viaggi, aperitivi e slalom fra vari pretendenti. Vorrebbe sbarazzarsi della grande tenuta di famiglia in Toscana, ma i Rencinai, fittavoli dei Neri da sempre, la trascinano in tribunale per un podere del quale rivendicano la proprietà. Le tocca tornare a Castelmemmo, dove pian piano le cose dalle quali ha preso le distanze – la campagna, il paese, la gente – acquisteranno una luce diversa.

C’È QUELLA BATTUTA attribuita a Baudelaire: la campagna è un posto dove le galline vanno in giro crude. Per dire che è da un pezzo che la modernità ha voltato le spalle alla civiltà contadina. Mentre però in paesi come la Francia la dialettica città-campagna innerva ancora i processi sociali, da noi l’agricoltura e l’allevamento vanno al centro del discorso pubblico solo quando qualcuno rovescia il latte per strada o chiede ragionevoli banalità come la regolarizzazione dei braccianti immigrati. Ne è spia quella che chiamiamo produzione culturale. Sì, qualche film (capolavori, peraltro: L’albero degli zoccoli, L’uomo che verrà, qualche romanzo. Ma mentre il binomio cibo-vino, cioè il consumo, genera migliaia di pagine e di ore di programmi tv, la terra proprio non la vediamo. Cerchiamo di intuirla, fuori fuoco, nei varietà bucolici alla Geo. O ce ne ritraiamo inorriditi quando il giornalismo d’inchiesta ci sbatte in faccia pratiche immonde, facendo di tutta l’erba un fascio.

Perciò un romanzo che parla – anche – di agricoltura è di per sé un avvenimento. Antonio Leotti, autore di La forza della natura (Marsilio, pp. 267, euro 17) – sceneggiatore di Radiofreccia, Il partigiano Johnny, Era d’estate – si era esercitato sul tema con un paio di pamphlet da adottare nei corsi di sociologia ed economia. Nel primo, Il mestiere più antico del mondo (quello del contadino) aveva già inquadrato il tema: «l’agricoltura non è glamour e, quel che è peggio, è a basso contenuto di potere».
Un saggio che tradiva già dal titolo una verve ironico-amara che nel romanzo si fa stile, sorretto da cadenze che è insolito riscontrare nella narrativa italiana contemporanea. Forse perché conoscere, oltre ai ritmi i ritmi del cinema, quelli della natura – come sa Leotti, agricoltore anch’egli – consente una marcia in più nel giocare con quelli della scrittura.

LA «CONVERSIONE» di Anna sarà tutta fisica, ché passa dagli odori – le terra, le muffe, il fieno, il miscuglio di polvere, gasolio e ferro – al tatto, all’infatuazione per un oggetto in particolare: il trattore. Un’epica delle macchine che l’autore suggella così: «Il trattorista è come un navigatore solitario, solca la terra invece che il mare, cerca una proda invece che una sponda, ma è solo come il navigante, solo con il suo trattore che è il suo bastimento, studia le curve del terreno invece dei moti del vento, ma è solitario come il marinaio e come lui dipende dai capricci del cielo».