L’avvio ha l’andamento di una riunione accademica, ma poi il ritmo si fa incalzante, fino al punto che quel rassicurante e soporifero inizio viene dimenticato per aprirsi finalmente a percorsi di ricerca che conducono su territori sì noti, ma che possono venire esplorati usando mappe niente affatto consolidate. L’avvio deludente del volume collettivo Terra mobile Atlante della società globale (A.A.V.V. a cura di Paolo Perulli, Einaudi, pp. 294, euro 24,00) deriva dall’innocuo quesito: «cosa è la globalizzazione?» che rischia di consegnare il libro a una stagione passata della discussione pubblica, visto che la globalizzazione è ritenuta, a ragione, un fenomeno irreversibile. Per rispondere alla domanda il curatore, Paolo Perulli, attinge consapevolmente a un limitato repertorio di definizioni che hanno caratterizzato la filosofia, il diritto, l’economia, l’urbanistica. La globalizzazione, viene ricordato, è quella intensa e stringente interdipendenza tra le nazioni che legittima la immaginifica frase sul battito di ali di una farfalla in Brasile che scatena una tempesta dall’altra parte del pianeta. Allo stesso tempo viene ricordato che le barriere poste alla libera circolazione di uomini (e donne), merci, capitali sono crollate come un castello di sabbia. Risposte e definizioni insoddisfacenti, che hanno solo la capacità di descrivere fenomeni già presenti nella storia umana, senza riuscire a restituire le differenze tra la globalizzazione attuale e gli altri analoghi processi, che hanno caratterizzati alcuni periodi della modernità.

Lo sguardo, allora, deve spostarsi su altri elementi del tempo presente. Ed è su questi cambiamenti di prospettiva che il volume acquista un ritmo più incalzante. Sono così analizzati alcuni luoghi comuni che hanno caratterizzato l’analisi della globalizzazione. In primo luogo, l’idea che la terra sia diventata uno spazio liscio, mentre i conflitti che caratterizzano il presente sono residui di un passato che tenta l’ultima resistenza a un futuro diventato già presente. C’è poi da stabilire se l’uniformità degli stili di vita o della «cultura» abbia un valore euristico. Infine, se la geografia sociale risulti così alterata come continuano ad affermare i cantori del nuovo ordine mondiale. L’intento del volume però non è la negazione di tali fenomeni. Tutti gli interventi si prefiggono un’operazione teorica più ambiziosa, quella di aggiornare la cassetta degli attrezzi di un pensiero forte sul presente.

Il libro è costruito attorno a coppie analitiche – recinto/spazio globale, terra-mare/aria, confine/soglia, separazione/relazione, sovraordinazione/subordinazione, scala geografica/spazialità urbana, funzionalismo/reticolarità, privato-pubblico/comune, polis/cosmopolis, labirinto/passaggio – con le parole che le compongono messi in opposizione le une con le altro. Qui, invece, tutti gli interventi sono mossi dalla convinzione che è subentrata una sorta di trasmigrazione da un termine all’altro. Così il perimetro costituito dai confini nazionali non scompare, ma viene immesso in uno spazio globale che lo riqualifica cognitivamente. Lo stesso vale per tutte le altre coppie analitiche. Non c’è dunque alcun terremoto analitico, ma il compimento di un percorso avviato secoli fa e giunto a un passaggio di fase. L’ambizione teorica del volume sta proprio nel riprendere linee di ricerca già presenti nella modernità e tuttavia relegate in una posizione «secondaria» rispetto al centro della scena pubblica. Interessante è a questo proposito l’analisi che viene fatta dello stato-nazione, indicata da più parti come la vittima sacrificale della globalizzazione.

Attraverso una lettura spregiudicata del Nomos della Terra di Carl Schmitt è individuata la tendenziale riconduzione dell’ordinamento statuale nazionale all’interno di una cornice sovranazionale rappresentata – Schmitt scrive il saggio negli anni cinquanta del Novecento – dalla costituzione dell’Onu. Questo tuttavia non significa che lo stato nazionale scompaia. Semmai acquisisce altre funzioni, perdendo alcune prerogative, come ad esempio la sovranità sulle politiche economiche, che devono rispondere a vincoli definiti in un ambito che vedono protagonisti anche gli stati nazionali. Lo stato-nazione diviene dunque protagonista, assieme ad altri organismi istituzionali e economici, del suo ridimensionamento, svolgendo tuttavia il ruolo di guardiano di un nuovo ordine mondiale sempre in divenire. La stessa riconfigurazione funzionale e concettuale vale per la coppia confine/soglia.

I confini sono ben lungi dallo scomparire. Anzi svolgono ancora una essenziale funzione regolativa del flusso di capitali, persone, merci, senza tuttavia funzionare come barriera. Piuttosto sono da considerare come una soglia che introduce chi la oltrepassa nel terreno della differenza. Dunque non un pianeta piatto, come recita la vulgata sulla globalizzazione, quanto un pianeta scandito da differenze talvolta irriducibili tra loro, come d’altronde testimoniano le infinite e spesso feroci guerre locali che caratterizzano la contemporaneità. La soglia è dunque l’«interfaccia» tra mondi diversi tra loro. Inoltre, le differenze sono fattori dinamici, propedeutici a inediti processi di sviluppo economico e sociale, che ridisegnano le identità personali e la geografia politica mondiale. Lo testimoniano la messa a valore delle differenze di religione e di relazione sociali avvenuta in paesi come il Brasile, l’India, la Cina, la Thailandia, dove religione, familismo e economia informale costituiscono fattori rilevanti nella loro trasformazione in «paesi emergenti». Più che prefigurare la formazione di un pensiero unico, la globalizzazione valorizza quindi le differenze esistenti. Altrettanto importante è l’analisi che viene fatta della relazione tra funzionalismo e reticolarità. Il primo termine è sinonimo di rigide strutture istituzionali e sociali, il modello della Rete indica invece realtà dove sono assenti gerarchie, dove è imperante una orizzontalità che non contempla vincoli e limiti. Una lettura semplicistica e fuorviante, perché i modelli reticolari sono funzionali a quel flusso di merci, capitali e persone che qualifica l’attuale globalizzazione.

Il ritmo analitico del volume subisce infine l’ultima variazione di tono quando affronta la centralità dello spazio nel governo della globalizzazione. Nel libro sono infatti analizzati i processi di costituzione delle world factory, siti produttivi disseminati nel pianeta e coordinati grazie alla tecnologie della comunicazione digitale. Ma sono realtà che hanno bisogno dei nodi di raccordo, di connessione. Le metropoli costituiscono proprio quei nodi, ridefinendo la relazione tra globale e locale.

Come viene scritto, assistiamo a una mondializzazione dello spazio urbano e, al tempo stesso, a una urbanizzazione dello spazio globale. Anche in questo caso, non è una opposizione concettuale quella che intercorre tra globale e locale, ma una continua trasmigrazione da un polo all’altro della coppia analitica, a seconda dei limiti che talvolta impediscono il flusso di merci, capitali e informazioni della globalizzazione.
Terra mobile si chiude con l’invito a riprendere il terreno della ricerca perché non siamo alla fine della Storia. Né alla fine della modernità, ma solo a un suo preciso punto di svolta che va interpretato come apertura al «tempo della trasformazione sociale e politico». Tema, quest’ultimo, qui il limite del volume, che viene inaspettatamente rimosso, quasi fosse un residuo del passato di cui liberarsi.