Tierra arrasada significa terra bruciata. Succede, con gli incendi, di vederne gli effetti sulla vegetazione: un grande rogo, poi il grigio della cenere nell’aria e ovunque. Non resta nulla, e presto anche la memoria dimentica quel che era prima. Qualcuno dice che il fuoco agevoli la fauna, le permetta di rigenerarsi più forte e rigogliosa. Qualcuno dice che il fuoco è solo un modo efficace per fare pulizia. Terra bruciata, in realtà, non è solo un incendio: è un binomio dal significato intrinseco, un concetto simbolico, una dichiarazione di intenti.

TERRA BRUCIATA è una tecnica militare. In Guatemala, il generale Rios Montt parafrasò l’espressione con «togliere l’acqua al pesce». Nel contesto di un conflitto interno che durava da oltre 20 anni, significava annichilire qualsiasi tipo di appoggio logistico e ideologico alla guerriglia, al fine di isolarla dalla base sociale a cui si rivolgeva. Vari furono gli esiti, fra i più conosciuti vi sono il campo di sterminio clandestino Creompaz o il caso di violenza sessuale Zepur Zarco.

Oppure quello del 6 dicembre 1982, quando con la giustificazione di voler recuperare 22 fucili sequestrati dai ribelli, 58 militari travestiti da guerriglieri entrarono nella comunità Dos Erres, Petén, Guatemala settentrionale. Gli uomini vennero rinchiusi nella scuola, le donne e i bambini nelle due chiese. I primi furono bendati, torturati e fucilati, mentre alle donne e ai bambini andò anche peggio: violate e seviziate sessualmente fino al giorno dopo, furono infine assassinate. I corpi vennero gettati nel pozzo, poi ricoperto da terra. Soltanto nel giugno del 1994 vennero rinvenute le ossa di 178 persone: la maggior parte erano bambini sotto i 12 anni.

ALL’EPOCA DI RIOS MONTT, al potere fra il 1982 e 1983, terra bruciata significava eliminare la guerriglia e le comunità indigene sospettate di appoggiarle, il cosiddetto nemico interno. Pulizia etnica, sociale e politica, affinché non rimanesse più alcuna traccia, nemmeno nella memoria. In quel biennio, l’esercito guatemalteco uccise 10 mila persone e firmò 669 massacri, di cui quasi la metà ai danni della popolazione civile indigena Maya Ixil. 448 comunità vennero «cancellate»: non fu nessun incendio, furono i fucili; poi, tierra arrasada, il fuoco e la cenere.

 

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Il 10 maggio 2013, a 17 anni dalla firma degli accordi di pace, il Tribunal A de Mayor Riesgo riconobbe José Efrain Ríos Montt responsabile del massacro di 1771 persone e colpevole di genocidio contro la popolazione Maya Ixil, condannandolo a 50 anni di prigione, a cui venivano sommati 30 anni per crimini contro l’umanità. 80 anni di carcere, il riconoscimento del genocidio e l’inizio di un processo di giustizia transizionale. La memoria storica sembrava riprendere piede anche nelle aule dei tribunali, mentre ai famigliari dei desaparecidos e delle vittime, o a chi era stato costretto all’esilio nelle montagne del Chiapas messicano, si palesava l’opzione di credere in un nuovo binomio: verità e giustizia. Ma, si trattava di una memoria breve in una democrazia fragile, e così, soltanto 10 giorni più tardi, la Corte costituzionale annullava la sentenza e posponeva la riapertura del processo a data da definire.

UNA STRATEGIA BEN NOTA in Guatemala, che nel giorno di Pasqua del 2018, lo scorso primo di aprile, permetteva al genocida di morire impune, a 91 anni e senza mai aver pagato per le sue terribili colpe.
Il 26 settembre 2018, a 22 anni dagli Accordi di Pace, parte di quel che resta del popolo Maya Ixil presenzia silenziosamente a Città del Guatemala: nella piazza dei Diritti Umani, le autorità ancestrali indigene officiano una cerimonia in memoria delle vittime del genocidio. Per terra alcune candele, tanti fiori e una grande scritta in petali rossi: «Giustizia». Altre centinaia di persone aspettano di poter entrare nell’aula, dove alle 18.30 ora locale verrà emessa la sentenza.

Al banco degli imputati siede Mauricio Rodriguez Sanchez, capo dell’intelligence militare di Rios Montt: il cervello che plasma il concetto, la mente che muove la mano, l’artefice della tierra arrasada. Accusato 5 anni fa insieme a Rios Montt per il genocidio della popolazione Maya Ixil, per crimini contro l’umanità e per il massacro di 1771 persone, ottenne di essere giudicato in un processo separato rispetto al capo di Stato e venne poi assolto per mancanza di prove che lo relazionassero ad azioni di sterminio di un determinato gruppo etnico. Ma il 13 ottobre 2017, il suo caso si è di nuovo aperto e ogni venerdì si sono raccolte perizie e si sono ascoltate testimonianze.

Il generale Mauricio Rodriguez Sanchez in aula durante il processo

 

OGNI VENERDÌ, Mauricio Rodriguez Sanchez si è seduto al banco degli imputati, mentre una delegazione di sopravvissuti al genocidio, organizzati nell’Associazione per la giustizia e la riconciliazione (AJR), ha affrontato oltre 10 ore di viaggio per recarsi dalla regione del Quiché, Guatemala centro-settentrionale, alla capitale. Seduti dall’altra parte e fra il pubblico, hanno raccontato quel che hanno visto e vissuto, le torture e i massacri. Quello a cui sono sopravvissuti. La memoria. In quasi un anno di udienze regolari, il Tribunal B de Mayor Riesgo ha ascoltato circa 141 testimoni, accompagnati da 66 perizie di antropologia forense.

Giovedì scorso ha emesso il verdetto: ci fu genocidio, ma Mauricio Rodriguez Sanchez è innocente. È una sentenza contraddittoria, emessa per maggioranza (due giudici a favore, una contraria), che sembra volersi scrollare di dosso la portata storica che grava sulle sue spalle. Una sentenza che spacca a metà quel binomio a cui i popoli avevano cominciato a credere: verità, ma nessuna giustizia.

LA QUESTIONE DEL GENOCIDIO, da anni divide la società civile: i muri delle città, i cori delle manifestazioni di piazza, i popoli originari, le organizzazioni dei famigliari delle vittime e degli scomparsi, le forze democratiche e la sinistra ripetono a gran voce che in Guatemala ci fu un genocidio. Affermano che quella della terra bruciata è una politica che dimostra la volontà di fare pulizia etnica, politica e sociale. Di sterminare. Dall’altra parte, a negare il genocidio è l’estrema destra, l’esercito, l’associazione dei veterani militari, il generale Otto Perez Molina – presidente del Guatemala fra il 2012 e il 2015 – le lobby economiche e la Fondazione contro il terrorismo, il cui stesso nome è contraddittorio. È Mauricio Rodriguez Sanchez, l dichiararsi innocente.

L’argomento di forza è che in Guatemala ci fu un conflitto fra due fazioni opposte, non un genocidio. Anche se la stessa Commissione per il chiarimento storico delle Nazioni unite indica che fra gli oltre 200 mila morti e desaparecidos, l’83,3% era di etnia indigena e il 93% dei casi di violenza fu di responsabilità dello Stato.

Una verità senza giustizia, la sentenza che assolve Mauricio Rodriguez Sanchez dai massacri perpetrati dal suo esercito. Come se il capo dell’intelligence militare non fosse stato a conoscenza delle azioni dei suoi soldati, come se non avesse dato gli ordini. Come se fu un genocidio non premeditato, frutto della sfortuna e del caso. Di opinioni divergenti. Come se fosse arrivato il momento di dimenticare le colpe e gli assassini, i morti e gli sconfitti. La democrazia.

TERRA BRUCIATA. Succede ancora. Succede ogni giorno nel Guatemala paradiso dell’impunità che lascia a piede libero persone responsabili di genocidio e crimini contro l’umanità.

Succede ovunque nell’industria dell’estrattivismo, come quando lo scorso 4 di settembre la Corte Costituzionale restituisce la licenza di lavorare all’impresa canadese Tahoe Resources, la terza miniera d’argento più grande al mondo, sospesa a processo per inquinamento e per aver negato l’esistenza della popolazione indigena Xinca. Succede ancora quando 56 ragazze adolescenti vengono lasciate bruciare vive nell’Hogar Seguro Virgen de la Asunción, l’8 marzo 2017. Succede ancora: terra bruciata, fuoco e cenere; le ombre di un genocidio silenzioso.