«Vorrei un partito giovane, onesto, popolare, noi siamo i riformisti radicali». Renzi? No. Quagliarello alla Convention del nuovo centrodestra che ieri ha celebrato se stesso sulle note degli U2. Mai il disordine è stato così grande sotto il cielo, e mai la situazione è stata così profondamente confusa.

Per il paese in primo luogo, descritto dal rapporto Censis sfiduciato, triste e in balia di una classe dirigente inadeguata. Al punto da essere politicamente scavalcata e surrogata da una decisione dei giudici costituzionali destabilizzante per l’architrave che sorreggeva un bipolarismo basato sullo stravolgimento del principio democratico della rappresentanza.

Per la sinistra che con la svolta delle larghe intese ha perso anche quella forza d’inerzia che le elezioni di febbraio avevano sospinto verso il traguardo di un governo di centrosinistra. Una sinistra che neppure la campagna elettorale per le primarie del Pd ha riportato in campo, come pure era successo con i tre milioni e mezzo di elettori ai gazebo per la sfida tra Bersani e Renzi. Né la marcia indietro di Romano Prodi, con l’annuncio di recarsi al seggio, sembra sufficiente a contraddire la previsione di una minore affluenza. La sfida tra i giovani candidati alla segreteria si gioca con un partito in grave affanno.

C’è un sindaco abile nel cucire insieme slogan modernisti, bravo a salire e scendere da palchi e tribune televisive. In fondo il suo Pd a vocazione maggioritaria è una pallida replica del veltronismo, una riedizione della terra bruciata a sinistra, e della sconfitta assicurata quando verrà il momento del confronto elettorale con la destra. Tanto più oggi, con l’inedita, ma niente affatto sorprendente, unità di intenti tra Berlusconi e Grillo, iscritti al partito più vecchio: quello del tanto peggio tanto meglio.

C’è poi un serio militante, nato e cresciuto alla scuola del partito, che fa discorsi rotondi sulla via socialdemocratica al cambiamento, che non insulta e non giggioneggia con le telecamere, che ha l’idea di una coalizione aperta alla sua sinistra. Ma che, alla prima prova di autonomia, la manifestazione del 12 ottobre per la difesa della Costituzione, ha preferito disertare «la via maestra».

C’è infine il ragazzo della porta accanto, l’outsider. Animato da sincero spirito movimentista, non ha votato Napolitano, ha appoggiato il ritorno al mattarellum, propone l’ex ministro Barca alla leadership di un futuro governo di alternativa. Lungo il cammino ha trovato il sostegno, importante, di Stefano Rodotà.

Si potrebbe dire vinca il migliore, ma è arduo considerare le primarie come la soluzione per rimettere in marcia una sinistra. Questi anni di crisi sono stati anche anni di sconfitta per il mondo dei partiti, dal Pd, a Sel, a Rifondazione.

Tuttavia l’esito delle primarie non lascerà le cose come stanno. Una vittoria – probabile – di Renzi sarà dirompente per la vecchia guardia, e le culture, del Partito democratico. Diversa la situazione se prevarrà Cuperlo. Poche le chances di Civati, anche se sarà interessante verificare il suo seguito. In ogni caso, come in un sondaggio di massa, capiremo quali umori attraversano la parte maggioritaria di un elettorato che, certamente nella sua base, ha ancora la forza di poter orientare il cambiamento.