Cultura

Terni, la fabbrica e l’«altra» città

Terni, la fabbrica e l’«altra» cittàTerni, foto di Paolo Carnassale, GettyImages

Anticipazioni Un testo tratto dalla premessa di «Dal rosso al nero», il volume edito da Donzelli, in libreria da domani. «Già lavorando al primo libro che ho dedicato a questo centro, nel 1985, sentivo che ero partito per raccontare l’epopea della classe operaia e ne stavo scrivendo l’elegia»

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 26 ottobre 2023

Era una delle mie prime interviste di storia orale a Terni, più di quarant’anni fa. Remo Righetti (nato nel 1901) esordiva così descrivendo la città dove era cresciuto: «Prima della guerra mondiale, Terni era una cittadina di trentacinquemila operai – cioè, trentacinquemila abitanti circa, molto ristretta, chiusa nelle mura». Si corregge subito: non tutti gli abitanti erano operai. Ma il lapsus era carico di senso: la Terni di Remo Righetti – operaio, antifascista, confinato, dirigente dell’Anpi, licenziato per motivi politici nel dopoguerra, consigliere comunale comunista – era interamente operaia, gli operai la riempivano tutta e davano senso a tutto.

ERA LA TERNI delle acciaierie, e poi della chimica, del tessile – Papigno, Nera Montoro, Bosco, Centurini, Gruber, Polymer… Quello che non aveva rapporti con la fabbrica e con gli operai, per lui non contava.
Chiara Furiani. «C’è un attore e regista ternano, Leonardo Delogu, che due-tre anni fa (2017) ha fatto un intervento performativo bellissimo, estremamente interessante. Era un percorso errante e ha portato il gruppo dei partecipanti praticamente sopra a Pentima, a vedere l’acciaieria. Cioè, per me è stato sconvolgente. Non avevo mai visto la fabbrica veramente per quanto è grande. Non mi ero mai resa conto che la fabbrica effettivamente occupa, non lo so, due terzi della città? Cioè effettivamente è più la città che s’è formata attorno alla fabbrica piuttosto che viceversa. E lì me so’ posta veramente un quesito: cioè quanto questa presenza, sia pure se tu fai finta che non ci sia, quanto questa presenza sia una presenza ingombrante, no? Lo è, senza dubbio».
Mi spiega Fabio Di Gioia, quadro delle pubbliche relazioni aziendali e sindaco Pd di un comune della Valnerina, che «l’estensione della superficie di tutto lo stabilimento» delle acciaierie ternane è pari a «centocinquanta campi di calcio». Ne ho scritto per mezzo secolo, ma alle acciaierie di Terni ero entrato solo una volta, a fine anni Settanta, e non avevo mai visto i reparti dove si fa e si lavora l’acciaio. Ho avuto l’occasione nel 2020, quando ho cominciato a lavorare a questo progetto. Se mi chiedessero che impressione ne ho tratto, direi: un immenso posto con pochissime persone dentro. Ragionare su Terni oggi significa prendere atto della sua cambiata composizione di classe – dalla «città-fabbrica» a una città che, come tante altre, ha dentro anche una fabbrica, da qualche parte.

METTENDO INSIEME quarant’anni di ricerca e due libri, scrivevo nel 2017 che tutto questo lavoro era il racconto della «breve vita complicata della rivoluzione industriale, epocale ed effimera (…) il processo di formazione di un centro – la grande industria, la città-fabbrica – e poi il suo smantellamento, pezzo per pezzo» (ma già mentre scrivevo il primo libro, Biografia di una città, 1985, sentivo che ero partito per scrivere l’epopea della classe operaia e ne stavo scrivendo l’elegia). Nel 2014, commentando la scelta di centinaia di operai di accettare un bonus di 80mila euro lordi (60mila netti) per lasciare volontariamente il lavoro, concludevo: «Segno che nel futuro industriale, il loro e quello della loro città, non ci credono più». Meno di quattro anni dopo, a conclusione di un epico decennio di lotte operaie, la rossa e proletaria città di Terni votava massicciamente per la Lega e per la destra. Aggiungevo citando un personaggio di William Faulkner: «ho visto l’inizio, ora vedo la fine».
In vista della fine, la prima cosa che cambia è il racconto. Per alcuni, quello che è successo è «un’apocalisse culturale» (Paolo Modesti): per altri, la liberazione da quella che Chiara Furiani definisce una «presenza ingombrante». In un saggio talmente articolato e partecipe da meritarsi un ringraziamento, Giorgio Armillei criticava gli storici di sinistra – me ed altri – per avere promosso il «mito» di Terni città operaia. Peraltro, non si preoccupava di definire che cosa intendesse per «mito», né di dimostrare che non era stata l’industria a rendere Terni diversa da Ascoli Piceno o da Rieti. Ma aveva ragione a dire che non c’erano solo gli operai.

LO SO BENE che non c’erano solo loro, anche se ci sono cresciuto in mezzo, unico bambino di ceto medio nel villaggio operaio della Gomma Sintetica, poi Montedison Polymer. Figlio di un funzionario di prefettura e di una professoressa, ho vissuto lì tutta l’infanzia e l’adolescenza, dall’asilo delle suore di Villaggio Cianferini alla maturità classica. Ero parte di quell’altra città, uno di quelli che andavano al cinema gratis coi biglietti in dotazione ai dipendenti della prefettura e che entravano disinvoltamente alla pasticceria Pazzaglia sul corso. Per cui, certo che c’era un’altra città – un’altra città che a lungo ha resistito alla centralità e alla presenza stessa della fabbrica e degli operai, e che tuttavia ne dipendeva (senza la fabbrica, Terni non sarebbe diventata provincia, e tutto quel ceto di funzionari e relativo indotto, compresa la mia famiglia, a Terni non ci sarebbe mai arrivato). Quest’altra città cercava di costruirsi un’altra narrazione di sé; e forse il «mito» – sia nel senso antropologico di racconto fondativo delle origini sia in quello colloquiale di racconto falso e sbagliato – dobbiamo cercarlo da altre parti. A proposito della storiografia di sinistra, Armillei parla di «invenzione della tradizione»: che dire allora di un ceto colto e professionale che, alla ricerca di origini e identità alternative alla fabbrica, negli stessi anni in cui Righetti ricordava una città tutta operaia, si inventava sulla base di un consapevole equivoco un antenato augusto nella persona di Cornelio Tacito, che con l’antica Interamna Nahars non ha mai avuto niente a che fare – e che, invece di vergognarsi, da un secolo continua a intitolargli la strada e la piazza principali?

ORA, QUESTA NON È SOLO una innocua elucubrazione di provincia. I miti e le tradizioni inventate hanno effetti reali: per esempio, servono a marcare la proprietà sociale del territorio. Al corso Cornelio Tacito si può essere cittadini per nascita: «Io prima (ero) abituato a passare molto tempo a corso Tacito, avevo il negozio dei miei davanti, per me era naturale andare a corso Tacito, che ci abitavo, non lo consideravo un punto d’arrivo. Per me era un punto di partenza» (Francesco Sciannameo). O ci si può avventurare come abusivi senza permesso di soggiorno: «Cioè, esse adolescente a Terni, negli anni ’60-65, e di periferia. C’era il mito del corso Tacito perché non conoscevamo nessuno, ce sentivamo estranei, e ciavevamo un’ammirazione pe’ ’sti ragazzi che invece a corso Tacito stavano come pesci nell’acqua, se conoscevano tutti, conoscevano le ragazze che frequentavano corso Tacito» (Gianfranco Canali); «(Sono nato in) un quartiere popolare, San Giovanni. Per noi il centro non esisteva. A corso Tacito ci sentivamo un po’, un po’ fuori zona. Effettivamente eravamo un po’ stranieri» (Comunardo Tobia).
Cornelio Tacito dava il nome anche al mio liceo classico, una scuola eccellente dove negli anni Cinquanta il preside Arcangelo Petrucci ci spiegava che eravamo la futura classe dirigente, e dove ci si poteva diplomare senza aver mai sentito le parole «fabbrica» o «operai» una volta in cinque anni. Forse era la distanza fra la cultura classica e la materialità del lavoro manuale. Forse era l’autocensura degli anni di Guerra fredda. Forse era perché i figli degli operai in quelle aule erano pochi, abusivi e invisibili.

 

SCHEDA

Itinerari di incontro e ascolto

Quando una città rossa, sede di una delle industrie più rilevanti del nostro territorio, con una lunga tradizione di scioperi e battaglie operaie, decide di allontanarsi dalla sua storia e passare «dall’altra parte», sta avvenendo qualcosa che vale la pena indagare e raccontare. Muove da questo presupposto il volume di Alessandro Portelli, Dal rosso al nero. Perché gli operai votano a destra, in libreria da domani per Donzelli (pp. 208. euro 26). Per analizzare un mutamento di identità che sta riguardando porzioni sempre più ampie del nostro Paese, l’autore ha deciso di partire dalla città di Terni, della quale in passato aveva ricostruito la storia e la memoria operaia, provando a tracciare il senso di questo itinerario attraverso l’incontro e l’ascolto, raccogliendo decine di storie e testimonianze. Portelli ripercorre la storia dei 10 anni di questa trasformazione intrecciando l’impatto del contesto nazionale con una realtà locale fatta dell’esito insoddisfacente dei grandi scioperi del 2005-14, crisi della sinistra, disorientamento culturale, processi di deindustrializzazione, crisi ambientale e sanitaria – ma anche della debolezza di una destra senza spessore, ma sospinta al potere da paure e insicurezze.

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