Europa

Terni e Ilva, c’era una volta l’acciaio italiano

Industria Dai tedeschi in Umbria agli algerini di Piombino, fabbriche svendute. E a Taranto si affaccia la Arcelor Mittal

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 3 aprile 2015

Dopo la crisi l’industria italiana ha perso circa il 25% del suo livello di produzione, mentre gli ultimi dati mostrano che anche il 2015 parte male. Il settore siderurgico appare come uno di quelli che ha più contribuito al risultato; tutti i centri produttivi presentano dei problemi rilevanti, dall’Ilva, alle Acciaierie di Piombino, a quelle di Terni, agli impianti bresciani. Il rischio ora è che quanto resta dell’eredità di un passato glorioso vada quasi tutto a finire nelle mani di azionisti esteri.

Il settore è soggetto da tempo a grandi trasformazioni: la produzione a livello mondiale ha continuato a crescere sino ad oggi, passando dagli 800 milioni di tonnellate del 2000 ai circa 1650 milioni del 2014, ma questo grazie ai paesi emergenti, con la Cina che ormai produce circa il 50% del totale, mentre nei paesi sviluppati l’output tende a stagnare. C’è poi nel comparto una grande capacità produttiva inutilizzata, mentre si verificano turbolenze continue sia sui prezzi delle materie prime che su quelli dei prodotti finiti, in un quadro di forte internazionalizzazione del business. Un mercato difficile.

Ma le difficoltà nazionali non sono solo legate alla crisi e ai mutamenti del quadro mondiale.

Va in effetti ricordata la sciagurata politica di privatizzazioni portata avanti dai governi di centrosinistra negli anni novanta. Il settore siderurgico dell’Iri è stato fatto a pezzi e rivenduto a valori di realizzo, con risultati finali catastrofici. L’impianto di Terni, all’avanguardia tecnologica nel settore dell’ acciaio inossidabile, veniva ceduto nel 1994 ad una cordata di imprenditori nazionali e della Thyssen Krupp; successivamente quest’ultima prenderà il controllo, ma per ragioni di strategie aziendali venderà poi alla finlandese Outokumpu, che, a causa del veto da parte dell’antitrust europeo, sarà costretta a cedere di nuovo l’impianto ai tedeschi, che lo faranno molto di controvoglia. Ora ci troviamo in una fase di discussioni confuse con la società per tornare ad una condizione di funzionamento normale. Una cosa simile accadrà con le Acciaierie di Piombino, che erano intanto state nel 1992 cedute a Lucchini; costui venderà poi nel 2005 ai russi di Severstal, che qualche anno dopo però si ritireranno. Seguirà, a partire dal dicembre 2012, una fase di commissariamento, mentre negli ultimi mesi si è finalmente manifestata la volontà di un gruppo algerino di rilanciare l’impianto, anche se i contorni precisi del relativo piano sono ancora soggetti a incertezze.

Il capolavoro delle privatizzazioni si ha con la cessione per pochi soldi dell’Ilva alla famiglia Riva nel 1995; essa otterrà dall’impianto grandi profitti che, per una larga parte, a detta dei magistrati inquirenti, prenderanno la via dei paradisi fiscali. Come è noto, c’è ora una qualche ipotesi di soluzione dei problemi dell’azienda, su cui ci intratteniamo più avanti.
Bisogna anche ricordare tra le ragioni delle difficoltà del settore la politica più recente dei governi, senza idee, approssimata, che interviene solo all’ultimo minuto; va anche sottolineata la mancanza di visione e la cattiva gestione dei capitalisti nazionali, che da un certo punto in poi è diventata una fuga disordinata.

Da quando è scoppiata la crisi dell’Ilva sono passati circa tre anni, ma siamo sostanzialmente ancora al punto zero ed un tempo prezioso è andato perduto. Intanto appare incredibile che sono dovuti passare diversi decenni prima che qualcuno si accorgesse dell’enormità della situazione ambientale di Taranto; ma ancora oggi il governo Renzi sposta apparentemente molto in là la soluzione della questione. Peraltro i problemi dell’Ilva non sono non solo quelli dell’inquinamento, ma anche quelli di mercato, finanziari, organizzativi, che nessuna forza puramente nazionale appare oggi in grado di risolvere interamente. Una possibile soluzione strutturale vede così da una parte il capitale pubblico impegnarsi non solo temporaneamente, come vorrebbe il governo, ma a lungo termine, nell’azionariato del gruppo per salvaguardare gli interessi del nostro paese; dall’altra sembra necessaria la presenza nel capitale anche di un grande gruppo estero che apporti quelle risorse che a noi mancano. L’ipotesi attualmente sul tappeto di affidarsi all’indiana ArcelorMittal non appare delle più felici. L’azienda sembra interessata all’Ilva più per escluderne i concorrenti che per altro, avendo già una capacità produttiva in eccesso in Europa; l’impianto sarebbe così probabilmente ridimensionato. Del resto la società presenta un modello generale di gestione volto a spremere al massimo gli impianti, tenendo bassi gli investimenti e massimizzando i dividendi a breve termine per gli azionisti. Una scelta che sarebbe dunque potenzialmente dannosa. Ma restano i coreani, i cinesi, i brasiliani…

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