John Connor talks too much, John Connor parla troppo, dice Arnold/Terminator visibilmente ingrigito ma sempre genialmente conciso. La stessa cosa si potrebbe dire per la nuova avventura del cyborg assassino concepito più di trent’anni fa da James Cameron: Terminator Genisys è un film in cui si parla troppo. Problema, questo, che affligge gran parte del cinema d’azione americano contemporaneo e che rende ancor più miracoloso ed emozionante il ritorno di Mad Max. Diversamente da Mad Max: Fury Road, Genisys non è un film rivoluzionario. Anzi, la frequenza del suo polso si può immaginare a partire dal nome con cui Sarah Connor (interpretata dalla principessa dei draghi di Games of Thrones, Emilia Clarke) si rivolge ad Arnold, «Pops», che è un vezzeggiativo della parola «papà» così old fashion che siamo quasi al nonno.
In effetti, un po’ vecchia maniera è tutto questo intreccio di ritorni al futuro e trame temporali parallele/alternative che, con cura rispettosa quanto opportunistica, ricuce personaggi, storie e stilemi del nuovo film a quello originale del 1984, piuttosto che ai due capitoli che l’hanno seguito, nel 1991 e nel 2003, o all’ insignificante Terminator Salvation (2009), in cui Arnold Schwarzenegger non appariva nemmeno perché era occupato a governare la California.

Quest’atteggiamento un po’ retrò ha giovato al film un’unanimità di recensioni negative. D’altra parte, di questi tempi è facile sparare su Schwarzy: tutto quello che ha fatto da quando ha lasciato Sacramento ed è rientrato a Hollywood, si è tradotto in un flop. Per dare un’idea della mancanza di entusiasmo con cui era atteso il film, basta dire che allo spettacolo di martedì sera (il giorno prima dell’uscita ufficiale in sala) facevano persino lo sconto sui popcorn.

Leggermente più generoso il botteghino Usa, dove Genisys ha finito il week end al terzo posto, dopo i dinosauri di Spielberg e le emozioni della Pixar, ma prima degli spogliarellisti di Magic Mike XXL.
In realtà, attaccare Genisys come l’ennesima manifestazione della mancanza di idee del cinema da grande studio è sia troppo facile che sbagliato.

Dietro alla macchina da presa, Alan Taylor (regista di un Thor, molta televisione di qualità e dell’interessante indie Palookaville), dopo la fiammeggiante parentesi B/ horror della distruzione globale di Le macchine ribelli – riporta il colore ai blu e agli acciaio più sobri che Cameron e il suo direttore della fotografia Adam Greenberg avevano usato nei primi due capitoli della serie. E trova alcune interessanti soluzioni visive che fanno del riusaggio stesso una specie di secondo tema del film.

In una scena molto bella Arnold invecchiato (il suo T-800, tra il padre burbero e l’angelo custode di Sarah Connor) combatte contro la versione giovane di sé (inviato dal futuro per uccidere Sarah nel primo film) grazie alla stupefacente ricreazione digitale del suo corpo da culturista e di un volto giovanile e senza rughe. L’effetto metallo liquido, tappa miliare dell’evoluzione del Cgi che ci aveva così stupito in Il giorno del giudizio, torna ampiamente usato a beneficio di un nuovo, tenacissimo, poliziotto cyborg. E quando, dietro all’apparenza umana del T 1000 (il modello avanzato, successivo a quello di Arnold) appare il fatidico teschio ghignante, l’immagine è iconica come gli scheletri di Ray Harryhausen.

In un’altra scena Sarah e Terminator ricorrono a un apparecchio da risonanza magnetica per bloccare John Connor, il leader della resistenza che qui a un certo punto passa dalla parte delle macchine, diventando un po’ metallico anche lui (il T 3000!).

Nel ruolo che fu di Edward Fourlong, Nick Stahl e di Christian Bale, si difende bene l’australiano Jason Clarke, che sfoggia una faccia piena di cicatrici e gli occhi blu, blu, di un profeta fanatico. Però, in confronto alla muscolosissima, portentosa, Linda Hamilton, la Sarah di Emilia Clarke è fuori posto come una bambola Lenci. Il Genisys del titolo si riferisce a un sistema operativo che, inserito in ogni computer, telefono, giocattolo, utensile sarà il veicolo attraverso cui Skynet potrà prendere possesso del mondo. Una prospettiva da incubo, e non necessariamente di fantascienza