Il mondo brulicante in cui ci introduce Terézia Mora – nata a Sopron, antico centro situato là dove il territorio ungherese si incunea in Austria, molto più vicino a Vienna che a Budapest – è probabilmente scampato a un conflitto e si trova in bilico tra più contesti e più linguaggi. I personaggi del suo esordio, Tutti i giorni (sensibile traduzione di Margherita Carbonaro, che riesce a trasmetterci molto delle tensioni linguistiche dell’originale, Keller, pp.496, € 19,50) si aggirano in una città turbinosa, la mai nominata Berlino, alla quale l’autrice è approdata dopo la caduta del muro: una città attraversata da esistenze spaesate, stordite, senza documenti.

Nella metropoli riunificata, i quartieri orientali hanno perduto i loro abitanti d’origine e sono diventati luogo di affluenza e confluenza di nuovi arrivati, di esistenze sopravvissute alle guerre in Jugoslavia e ad altre catastrofi. Del resto, il titolo riprende una poesia di Ingeborg Bachmann, «Tutti i giorni», appunto, dove in tempo di pace la guerra continua sotto mentite spoglie: «L’inaudito / è divenuto quotidiano» (Poesie, Guanda 1978).

«Quelle di cui parlo», scrive Terézia Mora nel prologo, «sono storie strappacuore e/o comiche. Cose estreme e stravaganti. Tragedie, farse, autentiche tragedie. Dolore infantile, umano, bestiale. Commozione autentica, sentimentalismo volto in parodia, fede scettica e sincera. Catastrofi, ovviamente. Naturali e d’altro tipo. E soprattutto: miracoli. Quanto a questi, la richiesta è sempre enorme». E in effetti alcuni casi fortunati affollano la storia del protagonista, Abel Nema, esule vestito di un eterno pastrano nero e un nome denso di presagi: significa in ebraico «alito, fiato, nullità», è imparentato con lo slavo nemec, in croato è nema,«non c’è». È un nessuno e tuttavia almeno una sua caratteristica lo rende interessante: può parlare dieci lingue senza accento. In virtù di questa sua facoltà, riceve dal professor Gabor, anch’egli «straniero» ma ormai inserito nella società, sebbene la disprezzi, una borsa di studio finalizzata a far studiare il suo caso da una équipe di ricercatori in psicolinguistica.

Una nuova famiglia
Il secondo incontro fortunato è con Mercedes, una giovane madre single, che in un improvviso trasporto lo sposa, portandogli in dono un permesso di soggiorno, un luogo dove sostare per un po’ e una parvenza di paternità, realizzata con il suo bambino, cui Abel insegna il russo e insieme al quale inventa un linguaggio privato, fatto di pochi termini e anagrammi, ma sufficiente a stabilire una complicità.

Per tutta la durata del libro, Abel Nema resta un enigma. Rifiuta la comunicazione quotidiana, erigendo intorno a sé un muro di mutismo che intriga chi lo incontra e noi con loro. Suscita sentimenti forti, passa più o meno indenne attraverso situazioni paradossali, ci introduce nel regno notturno di musicisti slavi, una folla di personaggi in corsa verso il benessere occidentale, e insieme un gruppo di Rom, clandestini che Terézia Mora accoglie nella sua scrittura.

La lingua del romanzo vibra dell’energia e della storia di ognuno di loro, tentando di riprodurre la sonorità dei fonemi di cui si compongono i diversi idiomi, e incoraggia l’irruzione di frasi o termini stranieri. La scrittura non procede in modo cronologico, sta a noi ricomporre gli eventi, i percorsi dell’esilio, e tutti i capitoli sono attraversati da intermezzi, «transiti», «domande», da dialoghi quasi teatrali. Nel primo, il protagonista ci si presenta «un sabato mattina al principio d’autunno», in un «minuscolo desolato triangolo di cosiddetta area verde, perché nell’acuminato confluire di due vie era avanzato qualcosa, un angolo vuoto». Abel è appeso a testa in giù, privo di sensi, bastonato.

Non appartenenza
Di capitolo in capitolo ricostruiremo la storia delle sue cicatrici, quelle antiche e quelle nuove, in un crescendo vertiginoso, che riassume in sé molti dei motivi del romanzo: la non appartenenza, la fuga, l’irrisione dell’altro, la violenza dell’interrogatorio, il peso psichico della marginalità. Descrivendo se stesso, Abel Nema ci fornisce un’immagine della condizione esistenziale delle «displaced persons», di quelle che popolano Tutti i giorni e di quelle non lontane da noi:«Scivolo accanto alla finestra, per esaminare la situazione. Non mi sorprende che non ci siano maniglie. Non è tanto facile aprire una finestra sul nulla».