“Il cinema esiste in quanto vi sono i film”. Questa affermazione di Alain Badiou funziona da epigrafe al nuovo libro di Roberto De Gaetano “Il cinema e i film. Le vie della teoria in Italia” (edizioni Rubbettino), rifacimento e aggiornamento del precedente “Teorie del cinema in Italia” (2005). L’affermazione potrebbe quasi suonare ovvia, se non fosse collegata al fatto che, in Italia, almeno fino a tutto il secondo dopoguerra, ha dominato un’estetica di matrice idealistica (Croce, Gentile), per la quale l’opera d’arte (quindi anche il film, quando lo è) va considerata prodotto quasi secondario della manifestazione dello Spirito. Ma la frase di Badiou acquista tutto il suo significato non banale, se si pensa che è preceduta da un’altra affermazione: “Il reale del cinema sono i film…”. Che significa questo? Significa che il cinema, nella sua prassi comune, potremmo dire abitudinaria (in quanto macchina per far soldi), fa parte della Realtà, mentre solo i film (sottinteso, alcuni film) introducono il Reale, l’evento traumatico del Reale, nell’accezione di Lacan.

L’arte, in quanto verità del sensibile, è inscindibile dall’opera, e il cinema è appunto messa in opera del sensibile, arte del reale, degli incontri, di una temporalità aperta al contingente. Dopo la deriva idealistica di matrice platonica, per cui l’arte, rispetto all’Idea, è fuori della Verità o ne è solo il pallido riflesso, De Gaetano individua giustamente una seconda tipologia di sottovalutazione del fatto artistico, subordinato a una funzione sociale e politica (ma si potrebbe dire ideologica), che in Italia è stata rappresentata, per tutti gli anni ’50 del secolo scorso, dal lavoro di Aristarco e della rivista “Cinema Nuovo”. E’ mancata a lungo, da noi, la capacità di misurare senza paraocchi ideologici il coefficiente di verità del cinema, malgrado l’avvento (del resto parziale e contrastato) del neorealismo – tanto è vero che il riconoscimento dei suoi meriti è venuto prima da fuori, dalla critica francese, dei “Cahiers du cinéma”, e specialmente da André Bazin.

Qui forse De Gaetano passa un po’ troppo sotto silenzio il lavoro d’opposizione d’una rivista come “Filmcritica”. Se è vero che elementi idealistici ancora si riscontrano in Umberto Barbaro, non sfugge peraltro a De Gaetano il ruolo innovatore della ricerca di Galvano Della Volpe, che introduce in Italia le ragioni della semantica. N nella sua nozione di “verosimile filmico”, mutuata da radici aristoteliche, è insito il concetto che solo nel particolare (filmico), solo nella materialità della sua realizzazione (anche tecnica), si concretizza l’idea: al di là, però, d’ogni piatto mimetismo realistico – i leoni di pietra di Ejzenstejn possono benissimo balzare in piedi e ruggire…

A questo proposito, viene giustamente ricordato il ruolo, in fondo contrapposto, di Cesare Zavattini. Se nell’idea ejzenstejniana di montaggio come specifico non solo del cinema, ma di tutte le arti, è insita una concezione “centrifuga” dell’inquadratura, che non è mai autosufficiente, che sempre deve essere abbandonata e restare aperta alla successiva, Zavattini, sulla scia baziniana, sostiene invece l’opportunità di “restare sulla scena”, ossia di non “tagliare” anzitempo, di lasciare che dall’inquadratura (centripeta) emergano tutte le possibili combinazioni di senso, comprese quelle fortuite o casuali, proposte dalla realtà.

Il cinema è la lingua scritta della realtà, diceva appunto Pasolini, attirandosi gli sberleffi dei semiologi accademici. Nel pasoliniano cinema di poesia, scrive De Gaetano, “in un certo senso il «poetico» nel suo carattere trascendentale non fa che attraversare tutte le forme filmiche, essendo esibito dal cinema di poesia, o rimanendo «interno» alla prosa cinematografica. È la «poeticità» come indice dell’autoriflessività che accompagna ogni produzione di senso. (…) L’uso pretestuale della soggettiva libera indiretta serve proprio a liberare l’istanza riflessiva, a esibire lo stile come «indice empirico della metaoperatività», svincolandolo dalle esigenze funzionali e narrative”.

Empirismo eretico, dunque. I segni di Pasolini sono le cose, sono i corpi, che il cinema offre la possibilità di cogliere nel loro arcaismo originario, divenendo anche un prezioso archivio di reperti antropologici. E traccia anche, il cinema, l’itinerario d’un percorso verso la morte – quella morte che è uguale alla vita, che non presenta alcuna differenza con essa, ma nondimeno le offre la possibilità d’un definitivo bilancio, d’una fulminea ricapitolazione. Questo bilancio avviene, nel caso di Pasolini, nel segno di un’inesausta vitalità, che non esclude la disperazione – non però nei confronti del cinema, se solo si pensa ai numerosi film progettati, e non realizzati solo per quel terribile evento del 2 novembre 1975: giorno dei Morti.

Altra figura di rilievo, nell’esegesi di De Gaetano, quella di Maurizio Grande, del quale viene messa in evidenza la distinzione fondamentale (di stampo ejzenstejniano) tra racconto e narrazione. Citando le parole stesse di Grande, nella teoria del montaggio di Ejzenstejn “trova ancora più forza la distinzione funzionale da me avanzata fra racconto

e narrazione, che si può accostare alla analoga distinzione fra rappresentazione e azione, e, infine, alla distinzione proposta da Ejzenštejn fra inquadratura e montaggio. […] il racconto si pone come la condizione iconica degli elementi in gioco nella narrazione, come quadro o cornice della narrazione. […] Viceversa, la narrazione è il processo temporale dell’azione, il dispositivo che regola la sequenza di atti, gesti, azioni secondo criteri di distribuzione cronologica…”.

La teoria del cinema, in sostanza, è una teoria in divenire, una teoria “impura”, da fare, disfare e rifare continuamente in rapporto alle opere (ai film): impura, perché relativa a oggetti “anfibi”, dove si coniugano realtà e finzione, mondo e arte. Il ritorno alle opere, alla loro concretezza semantica, auspicato da De Gaetano sulla scia di Badiou, dovrebbe appunto servire a scongiurare la scomparsa del cinema nel grande mare limaccioso della medialità indifferenziata.