Quando il tempo andato colpisce la memoria ferita, segnata da un trauma collettivo, sembra impossibile dimenticare, smarrire ricordi. Eppure, arrivando a Teora, nell’alta Irpinia, a prima vista non si notano segni evidenti di quel 23 novembre del 1980 in cui interi paesi furono devastati. Passati quarant’anni, il paese appare aggraziato, sereno, anche se molto diverso da quel borgo originario scavato nel tufo. Soffia un’aria lieve. Il silenzio lascia la scena alla bellezza delle rocce scoscese e il vento si fa largo tra le foglie, i rami, gli alberi. Una curva accarezza dolcemente la salita verso la collina dietro cui si scorge un edificio dalle ampie vetrate, luce e spazio in abbondanza.

È la biblioteca e pinacoteca dove sono raccolti e custoditi frammenti di notizie su quel tempo di sofferenze, dolore, gelo, fame, povertà, su ferite mai curate da uno Stato inerme, arruffone e confuso. Un’ampia raccolta di giornali dell’epoca che narra di una tragedia nella tragedia: soccorsi che non arrivano, passerelle di politici, promesse al vento, confusione, disorganizzazione, rimbalzi di responsabilità, polemiche televisive, demagogia, incuria.

«Non ce ne andremo: ci diano una casa per coltivare i nostri campi», dichiaravano i superstiti, ma la storia ci racconterà esattamente il contrario. «Le autorità intendono portare via tutto da questa terra. Ammassarli in alberghi … è stata usata una parola crudele: esodo». I giornali raccontavano del Presidente Pertini infuriato per la disorganizzazione e i ritardi. Ad incalzarlo settori della Dc e un giovane Mastella che dichiara «Pertini ha forse vibrato con la sua allocuzione un’autentica scossa di terremoto alle situazioni del nostro Paese». Polemiche che si susseguono: lo aveva già previsto il Cnr, perfino il mago di turno.

Salvatore al tempo aveva 18 anni e denunciava di come la fuga verso gli alberghi servisse allo Stato per «scaricare le sue responsabilità per il ritardo nei soccorsi. Ricordate per tutta la vita, inchiodatevelo nel cervello quelle scene di domenica notte: scavavamo con le nostre mani, mezzi nudi, terrorizzati, mentre la terra era ancora infuriata». Chissà dove sarà quel ragazzo che, con tanti altri, si è sostituito a uno Stato assente nel tentativo disperato di salvare vite. Emigrato in Svizzera, Canada o nord Italia. Mantenerlo nella sua terra sarebbe costato troppo: investire nella ricostruzione sociale oltre che in quella edilizia.

Il fenomeno dello spopolamento non è solo conseguenza del fallimento della politica post terremoto. Ha origine storica nelle masse contadine trascurate da un ordine politico disinteressato alla questione rurale ed è divenuto prorompente con le mancanze di opportunità e di lavoro.
Per contrastare la desertificazione sociale il Comune, da qualche anno, ha messo in atto un’efficace politica di ripopolamento attraendo famiglie da diverse zone del mondo – Siria, Argentina, Brasile, Inghilterra, oltre al nostro Paese. Coltivare la memoria vuol dire reinventare diverse possibilità di vita e trovare significati inediti di abitare zone in parte abbandonate: «si può incentivare una diversa idea dell’abitare in cui si sente nettamente la differenza con le grandi metropoli.

Noi siamo una piccola comunità. È la dimensione umana che cambia», afferma il sindaco Stefano Farina facendo emergere significati che ci pongono di fronte alla questione di ripensare la distribuzione demografica e studiare forme per decentrare attività produttive, scientifiche, culturali. Un cammino necessario, ma in salita come quello che ci conduce sull’alto della collina dove si trova l’epigrafe dedicata alle 139 vittime di Teora (sono state quasi 3000 in tutta l’Irpinia). «Per ricordare e non dimenticare» si legge. Sullo sfondo, i resti di un’antica porta. Sembra essere l’accesso negato alla storia, alla memoria.