Teodoro è il titolo del romanzo d’esordio di Melissa Magnani per Bompiani (pp. 267, euro 16). È un nome che non viene pronunciato, sigillo di una tragedia quale la morte di un neonato. Appartiene a Teodoro la voce narrante di questo testo quantomeno originale che rimanda più ai racconti biblici che non alla letteratura contemporanea. Il romanzo racconta di una coppia di sposi, padre e madre, di cui non conosciamo i nomi, che vivono in una «pianura» e generano molti figli. Dopo il primogenito Teodoro, appunto, che muore a soli undici giorni nel mese di ottobre, nascono Ero, Gedeone, Ada, Abele, Zaira, Giacinto, Libero, Pellegrino e Mario.

TEODORO nel corso del romanzo ci racconta di ognuno di loro: di come Ero sia un bravo fratello maggiore e di come sia ingiusto che non abbia potuto essere Teodoro stesso ad aiutare e guidare i suoi fratelli minori. La lentezza e l’alienazione del carattere di Gedeone arrivano con estrema delicatezza e non viene mai nominata neanche la sofferenza di Pellegrino per essere nato senza un piede. I due gemelli Abele e Zaira, i cui nomi rimandano all’alfa e all’omega, rappresentano il desiderio di libertà: Magnani decide di raccontarne attraverso la narrazione della loro vicinanza con gli «zingari» che per un certo periodo di tempo abitano la pianura. Libero, invece, abusa del destino scritto nel suo nome e spesso si ubriaca. È Mario, l’ultimo, che lo recupera e lo riporta a casa, nel suo letto. Del resto Mario è «l’Insonne», così lo chiamano «la vecchia cieca e la vecchia storpia», due donne anziane da sempre che orbitano intorno alla famiglia, senza che venga mai specificato perché o con quale ruolo, se non quello evidente delle osservatrici. Essendo una cieca ed entrambe vecchissime utilizzano l’olfatto per riconoscere il mondo e sentono «l’Insonne» proprio a naso.

Il turning point, seppur l’idea di svolta non sia proprio adeguata per questo romanzo in cui più di tutto si raccontano l’immobilità e l’ineluttabilità della vita, attraverso lo sguardo eterno di Teodoro, è anch’esso prototipico. Due dei fratelli si innamorano della stessa ragazza, che, come da copione, mito e religione, diventa la causa della separazione di questa famiglia, fondata a partire da un amore, quello tra madre e padre, indefesso, nato sotto un cielo pieno di «farfalle bianche».

LA FORZA ESPRESSIVA del romanzo sta proprio nel racconto sulla famiglia, sulla comunità dei fratelli e la coppia dei genitori: «e io prego la neve di scendere sui fossi e di fermare il tempo, i passi dei miei fratelli, ogni cosa. Di lasciarci così, come grani immobili sul fondo di una clessidra. Di lasciarci vicini, bloccati nell’attimo prima di separarci». A consegnare le loro vite e l’amore che li lega è l’assente, Teodoro, che solo può sentire e comprendere senza cedimenti e interruzioni, senza dubbi, quanto potente e irrinunciabile sia la fratellanza. Lo stile del testo è gnomico, composto in assenza di subordinate e di dubbi, ricco di formule, come è tipico dell’epica. Garantisce la costruzione del senso di sacralità che connota la storia, a partire da una voce rara e originale: l’aedo è un piccolissimo morto.