Intervistata dalla «Paris Review» nel 1972, Eudora Welty spiegava il suo punto di vista sul racconto, forma che privilegiava rispetto al romanzo, perché – sosteneva – «i racconti sono tutti racchiusi in una singola atmosfera, alla quale tutto, nella storia, deve adeguarsi. Personaggi, scenario, tempo, eventi, sono tutti soggetti a quell’atmosfera. E si possono tentare le cose più effimere, più fugaci, in un racconto… Forse si risolve di meno, ma succede di più».

A differenza dell’arte del romanzo, quella del racconto – quand’è al meglio – è sempre puntata su un fuoco intimo, appena sfiorabile, anche dalla penna dell’autore, che spesso deve limitarsi a un flash discreto su un obiettivo circoscritto, una luce istantanea che tuttavia non deve sfuggire al lettore. È lì che succede quel tanto che può suggerire una chiave plausibile al di più.

Questa tecnica, sempre più selettiva nel Novecento, è maestrìa di pochi. A riproporcela arriva la pubblicazione integrale di Una coltre di verde (Racconti edizioni, traduzione di Vincenzo Mantovani e Isabella Zani, introduzione di Katherine Anne Porter, pp. 262, euro 17,00), la prima raccolta di Eudora Welty risalente al 1941, già in parte tradotta negli scorsi anni ottanta, quando ci fu una rivalutazione di questa appartata scrittrice del Sud degli Stati Uniti, morta novantenne nel 2001 a Jackson (Mississippi), dove era nata.

I diciassette racconti di Una coltre di verde vanno a formare la tavolozza di un apprendistato, variegata nei ritmi narrativi, nelle strutture dialogiche e vernacolari, nelle scenografie rurali e cittadine, nei modi più o meno comici, caricaturali o tragici, e nelle tipologie umane che durante gli anni della Depressione e dei suoi postumi, quando Welty era impegnata in un progetto fotografico sulla sua terra, andavano ri-caratterizzando – rispetto al mondo epico ritratto da Faulkner – il paesaggio notoriamente complesso del Sud, ancora diviso fra i pochi resti di una antica gentility decaduta, poveri bianchi e poveri neri.

Non a caso, il senso del luogo per Welty (come per altri scrittori del Sud, per esempio Carson McCullers e Flannery O’Connor) è l’anima generatrice della storia, il «punto focale» cui si relaziona, scriveva Welty nel saggio Place in Fiction (1955), ciò che «stiamo sperimentando» nella narrazione. Nell’accaldato Mississippi basta poco a sconvolgere il ritmo monotono e statico del tempo e far esplodere l’umano, che cova silenziosamente in esistenze mortificate: l’arrivo di un treno, un circo, un forestiero, una morte, possono provocare lo strappo all’ordinario stantio, rompendone la rassegnata linearità di facciata. Ma nell’urto con l’evento casuale, ogni smottamento di micro-esistenza, anche effimero, si fa squarcio di riflessi introspettivi, che superano il senso del luogo, ridimensionando – dove c’è – il contorno grottesco, e indicando territori più estesi, non di rado di natura anche misterica o allegorica.

Ruby Fisher vive un’ora di esaltazione nel leggere su un giornale di essere stata uccisa da suo marito, e la banale consapevolezza del caso di omonimia fa cadere in frantumi il suo sogno di evasione dalla prigionia della consuetudine; Lily Daw, una ritardata mentale, scopre improvvisamente amore e sesso mentre, in attesa di un treno, sta per essere internata in una casa di cura; Clytie, una vecchia eccentrica, è ossessionata dai volti della gente, perché vi vede la fonte di una «visione più profonda e commovente del mondo: era mai possibile – si domanda, con fotografica sottigliezza metatestuale – comprendere gli occhi e la bocca di un altro, i quali nascondevano lei non sapeva cosa, e segretamente chiedevano a loro volta un’altra cosa ignota?» Imparerà qualcosa di più tragico nel contemplare, senza riconoscerlo, il suo volto rispecchiato in un barile d’acqua.

Il giardino che Mrs. Larkin, turbata dalla morte del marito, coltiva con perseveranza maniacale si fa coltre di verde per nascondere la sua caduta nella follia quando, per un lungo istante catartico bagnato dalla pioggia, tiene sollevata la zappa decisa a farla cadere sulla testa di un ragazzo di colore. È il mistero dell’esistenza ciò che interessa Welty, l’enigma di quello che si nasconde dietro un volto qualsiasi, se solo si riuscisse a squarciarne il sipario.

Nel perfetto racconto «La chiave» tutto accade in un breve lasso di tempo e nello spazio circoscritto di una remota stazione ferroviaria. Tra i viaggiatori in attesa c’è una coppia di sordomuti diretta alle Cascate del Niagara e un giovane dai capelli rossi che gioca al rilancio di una chiave. Non una parola rompe il silenzio assonnato della stanza. Toccherà alla chiave aprire l’occultata anima sognatrice a un linguaggio misterioso quando cadrà casualmente ai piedi del sordomuto, caricandosi di segni tanto ovvi quanto segreti. Inutile porsi domande su possibili significati. Lo sa anche Albert, il sordomuto: «Sarebbe mai stato sicuro di cosa veramente poteva essere un simbolo?». Ciò che conta per lui è che la chiave è un simbolo: di cosa è difficile saperlo.

Alla fine del racconto, l’obiettivo si posa sul volto del giovane donatore di un’illusione (o di una teofania? o di una tentazione?), il quale, nell’allontanarsi dalla scena, ha acquisito per sé una consapevolezza inquieta, che lascia disarmato il lettore: «Si capiva che disprezzava e vedeva l’inutilità della cosa che aveva fatto».