Quarant’anni e quarantatré giorni, tanto è durata l’assurda attesa di Henrik. Isolato nella sua casa, che ne custodisce oggetti e passioni, il vecchio militare sta per incontrare Konrad, l’amico artista fuggito ai tropici in quel lontano passato di cui ardono ancora Le braci. La scena angolare accentua la cuspide dell’animo di Henrik (Renato Carpentieri) che si appresta all’incontro con Konrad (Stefano Jotti), sollevando dalle poltrone quei teli che da decenni le proteggono. Come del resto ha conservato ogni pensiero e sentimento di un mondo ormai scomparso, in una sorta di sospensione temporale che solo ora, mentre sta per compiersi lo scempio della Seconda Guerra Mondiale, si interrompe.

TRATTO dal romanzo del 1942, di Sándor Márai, la cui pubblicazione in Italia nel ’98 destò grande interesse per lo scavo profondo dell’animo e delle relazioni umane, Le braci approda in teatro (al Piccolo Eliseo, fino al 9 febbraio) con la regia di Laura Angiulli che ne fa un gioiellino di pulizia e chiarezza drammaturgica. Una sorta di via crucis spirituale, connotata da stazioni che sono indelebili memorie e irrisolti nodi esistenziali. Un movimento continuo quanto inutile accompagna il serrato dialogo tra i due uomini, si spostano da una poltrona all’altra senza trovare pace, né risposte alle domande che il generale pone all’amico.

QUALE fosse la vera natura della relazione con sua moglie Krisztina, della quale brucia nella stufa il diario rinunciando a leggerne le ultime pagine, non prima di averlo offerto all’amico, perde valore di fronte al vero tradimento rappresentato dall’abbandono e dalla scelta di una nichilistica solitudine. Potente la presenza scenica di Renato Carpentieri, composta sul disperato bisogno di conoscenza, per trovare il senso dell’umana esistenza.