In un’intervista rilasciata a Enrico Filippini nel 1985, Max Frisch sbrigava così uno dei suoi ultimi libri, L’uomo nell’Olocene : «c’è un vecchio solo in una casa di montagna perduta in mezzo alle Alpi … è un collage: volevo cogliere un uomo vecchio nella sua solitudine concreta, nei suoi pensieri elementari, senza biografia, senza ancore di salvezza, senza parapetti… Mi interessa sapere com’è avere i piedi bagnati e intanto avere freddo».

Naturalmente, nel romanzo c’è molto di più di quanto allora non volesse esplicitare lo scrittore di Zurigo, eppure la concisione non tradisce il dettato artistico di un sentimento terminale ma non nichilistico dell’esistenza: l’estenuazione del romanzesco, ridotto a una sequela di frammenti narrativi alternati a materiali eterocliti, corrisponde perfettamente alla condizione di un personaggio che, quando Frisch ne scrive, alla soglia dei settant’anni, immagina appena più anziano di sé. Isolatosi in una sperduta valle del Canton Ticino dove non fa che piovere e tuonare, Geiser – questo il nome dell’uomo – raccoglie brani da enciclopedie e libri di geografia preparandosi a un’escursione di cui non resterà traccia; schiacciato dalle minute incombenze del presente, il passato riaffiora solo sotto forma di un’ascesa giovanile del Cervino, ma quello che Corinne, la figlia che lo ha infine raggiunto nel suo eremo, chiede al padre «non c’entra niente col Cervino, questo è stato cinquant’anni fa, e Corinne è lì per sapere cosa c’è adesso».

Lasciando sospeso l’enigma degli ultimi giorni di Geiser, troviamo traccia di quella vecchia impresa alpinistica nel secondo romanzo pubblicato da Frisch nel 1937 e sinora inedito in italiano, Il silenzio. Un racconto dalla montagna (traduzione di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, «formelunghe», pp. 118, euro 13,00).

Come nell’Uomo, anche qui i protagonisti sono essenzialmente due: il primo – di nuovo poco più grande dello scrittore, ma stavolta già nell’età adulta – ha trent’anni, si chiama Balz Leuthold e si trova sulle Alpi bernesi per tentare la parete nord dell’Eiger; mentre il secondo è il paesaggio montano, che questa sorta di Geiser in erba decide di affrontare in solitaria alla ricerca di un’affermazione di senso che sopravviva alla prova di resistenza della banalità sociale: «può dare un senso alla nostra vita semplicemente il nostro passarla ad altri? Forse ci sono uomini che realizzano la propria vita e hanno il diritto di dare il nome a dei bambini; ma per semplice passatempo ci sono le bocce e le carte e mille professioni, e non c’è nulla di più tremendo di questo crimine diffuso, l’abitudine di spostare semplicemente la propria noia a un successore».

Senza indulgere in facili parallelismi biografici – peraltro fugati con efficacia da Peter von Matt nella postfazione che chiude il volumetto –, è però indubbio che gli scrupoli di Leuthold siano gli stessi vissuti in quegli anni da Frisch, il quale, una volta terminata la novella, decise infatti di abbandonare la letteratura per seguire le orme del padre architetto; risoluzione che si accompagnò all’incenerimento di alcuni manoscritti distrutti sulla Zürichberg (una delle colline che cinturano il lago di Zurigo) e a cui l’autore di Andorra e Barbablù tenne fede almeno fin quando, salvo il breve intermezzo della pubblicazione del suo taccuino militare (Fogli dal tascapane, 1939), non tornò alla narrativa, nel ‘43 (con I difficili, ovvero J’adore ce qui me brûle). Ma quali sono, per l’esattezza, questi scrupoli? Quale la tensione cui Frisch sottopone il suo protagonista? Come lui stesso, Leuthold è un borghese in procinto di sposarsi e, così facendo, abbandonare le ubbie della gioventù per vestire i panni del retto uomo di famiglia. Ciononostante – o proprio per questo – avverte come un impulso irrefrenabile la tentazione di misurarsi con la vita (e perciò col pericolo di morire) e cristallizzare quel momento in un’impresa che resti ben oltre la dimensione nostalgica e consolatoria della memoria.

A intralciare i suoi propositi, la comparsa di una donna conosciuta nel rifugio alle pendici della montagna, che si frappone non solo tra lui e la futura moglie, ma anche tra lui e il suo exploit alpinistico: variante di segno uguale e contrario della vita coniugale cui tenta di sfuggire. Alla fine, Leuthold porta a compimento quanto si era prefisso, ma cosa questo significhi non lo dicono le succinte battute con cui si chiude la sua avventura: come nell’Uomo, il vero esito del Silenzio resta un mistero affidato all’interpretazione del lettore, secondo un meccanismo che, raffinato, tornerà anche nei capolavori della maturità: Stiller e Homo Faber. Quasi a tendere un immaginario filo rosso fra la tradizione del Bildungsroman di stampo romantico e il romanzo-saggio esistenzialista, in questa sua seconda prova letteraria Max Frisch da un lato si protegge dai rischi della digressione filosofica con uno stile limpido ed essenziale, in cui l’intervento dell’Io narrante è ridotto ai minimi termini, funzionale com’è all’andamento spedito del racconto; dall’altro lato, lascia intravvedere la matassa da cui non smetterà di tessere le trame delle sue opere maggiori (fino, lo abbiamo ricordato, all’estrema rastremazione della senilità): una battaglia aperta tra le ragioni dell’intelletto e le spinte di una sensibilità pienamente spiegata nella descrizione dei paesaggi (veri e propri territori da esplorare come per la prima volta, con gli occhi di un artista capace di estrema precisione e di un ventaglio tonale vastissimo). Una battaglia tra volizione e destino destinata a non risolversi, sempre volta alla ricerca di una equidistanza minata – se vogliamo cogliere in un dettaglio lessicale del Silenzio la spia di un’attitudine alla realtà – dall’irrequieta miscredenza che destituisce di fondamento anche le più intime e profonde domande che il personaggio novecentesco non può non porsi.

Al cuore, dunque, della parabola di Leuthold, Frisch affronta il problema dell’identità soggettiva e della sua corrispondenza con l’immagine pubblica che vi si sovrappone, in un giuoco di rimandi e frizioni che, fatalmente, si infrangono contro lo sconcerto di un’interrogazione banale almeno quanto l’esistenza stessa: «A che scopo? È proprio la domanda più scortese che si possa fare alla vita… Qualcuno gioca a scacchi, qualcun altro legge i resoconti della Borsa, e con viso altrettanto serio un terzo osserva le cavallette che ha raccolto nel suo barattolo verde, e altri ancora crollano la testa quasi con patimento meditando su un cruciverba. A che scopo?»