A rendere visibile la politica di negazione dei diritti e della vita stessa, non sono solo le operazione di scarico delle salme dalla nave militare approdata qui, stamattina. Sulla banchina di Porto Empedocle, c’è un’altra realtà che testimonia la logica delle politiche migratorie italiane ed europee.

Si tratta della tensostruttura allestita come centro di accoglienza: altro contenitore di corpi segregati, costretti, controllati, numerati. Da qui, centinaia di profughi che avrebbero diritto alla protezione internazionale, scappano periodicamente in massa, per le condizioni in cui sono costretti a vivere. I politici hanno espresso il massimo cordoglio per le vittime dei due naufragi avvenuti durante la prima settimana di ottobre. Vittime, che non sono state né le prime, né, probabilmente, saranno le ultime.

È vent’anni che nel Mediterraneo si continua a morire nella totale indifferenza e complicità delle nostre politiche.
Intanto i superstiti di questi naufragi, come quelli di altri viaggi della disperazione, continuano ad essere stipati in centri di accoglienza governativi d’emergenza come quello di Porto Empedocle. Nella tensostruttura sono oltre 400 le persone presenti. Persone ammassate, per cui anche l’aria è una concessione. Non possono stare fuori dalla tenda, forse perché, essendo una parte del recinto dell’area piegato a causa delle fughe di massa che hanno interessato il centro diverse volte, si teme che qualche altro «ingrato» possa fuggire.

E così succede che anche respirare fuori dall’aria viziata del tendone diviene una concessione. I migranti escono a turno a prendere aria. Lo spazio in cui possono farlo è quello appena fuori dall’ingresso della tenda, delimitato da transenne e sorvegliato dalle forze dell’ordine che presidiano il campo.

L’accesso è ovviamente negato ed è impossibile poter avvicinare i migranti per parlare con loro. Attraverso la graticola del cancello ho potuto parlare solo con due volontari della Protezione civile, gli unici che si sono avvicinati e hanno risposto alle mie domande, centellinando le parole. È stato però, sufficiente sentire rispondere: «…anzi…che almeno possono prendere aria», per pensare a tutto quello che c’è da fare perché la negazione della vita di questa logica dell’emergenza non continui ad esprimersi nelle sue forme più bieche.

La straziante visione delle bare delle vittime del naufragio di Lampedusa a cui abbiamo assistito è, infatti , solo una delle forme visibili della logica di negazione dei diritti che tale sistema porta con sé. Per questa ragione, mentre l’umana emotività per le tragedie dei giorni scorsi ci porta continuamente all’immagine della distesa di bare, non dobbiamo distogliere neppure per un attimo lo sguardo sulla realtà delle strutture di smistamento governative come quella di Porto Empedocle, Lampedusa, Trapani, Catania e Ragusa.

Questi sono luoghi in cui, quotidianamente, la vita e il tempo di centinaia di essere umani viene sacrificato alla logica dell’emergenza, nella più totale negazione dei diritti alla dignità, all’integrità e alla libera circolazione. Queste persone passano tutte le loro giornate rinchiusi in spazi in cui non possono neanche muoversi, seduti sui loro materassi appoggiati per terra. Spesso non possono uscire, né mettersi in contatto con le loro famiglie, neppure per comunicare di essere vivi.

In queste strutture di smistamento, le persone dovrebbero sostare solo il tempo strettamente necessario per organizzare il loro trasferimento presso veri e proprio centri d’accoglienza. In realtà non è così. Succede spesso, troppo spesso, che le persone che, al loro trasferimento da Lampedusa, hanno la sfortuna di essere collocati transitoramente in questo tipo di centri, vi rimangano per settimane e , addirittura, per mesi. Quel che è peggio, è che il decorrere di questo tempo che pesa sulle loro vite ridotte ad esistenze trascinate dalla speranza che l’attesa finisca, non serve neppure ad accedere alla protezione internazionale. Infatti , durante, tutto il tempo trascorso in queste strutture non viene data loro neanche la possibilità di fare domanda d’asilo. Solo una volta che saranno collocati in un vero centro di accoglienza, potranno, finalmente, compilare il modulo per la domanda di protezione. E , dopo mesi ancora riusciranno ad avere l’audizione con la Commissione che deciderà le loro sorti…ovviamente, una volta passati altrettanti mesi.

Sono più di 400 le persone che a Porto Empedocle vivono segregate nel tendone bianco da cui non si sente né vede un fiato di vita. Sono 200 le persone che a Trapani hanno trascorso due mesi, vedendosi trasferire da una palestra all’altra, prima di fare ingresso nei centri di accoglienza. Altre migliaia vivono le stesse condizioni nei centri di emergenza, e dell’emergenza, improvvisati per l’accoglienza.
Questa è l’altra immagine di negazione della vita e dei diritti, che, neppure tra le lacrime per le tragedie inaudibili come quella di Lampedusa, possono essere dimenticate, neanche per un attimo.

* Redazione di Borderline Sicilia Onlus