Forse la dimensione che più si adatta al tennis è quella del poema epico. Il prolungarsi del gioco, i set che ricominciano uno dopo l’altro – fino a cinque nei grandi tornei –, avversari che sembrano condannati e improvvisamente rinascono, eroi pronti a entrare presto nell’orizzonte del mito sportivo dopo un estenuante uno contro uno, un corpo a corpo durissimo (chiedere, per credere, a John Isner e Nicolas Mahut, primo turno di Wimbledon, anno 2010: 11 ore e 5 minuti di lotta per la partita più lunga della storia). Una specie di epos, appunto, ma mentale e miniaturizzato. Eppure il tennis è anche una danza fatta di scambi talora velocissimi, nonché di momenti fatali, di attimi in cui – improvvisamente – qualcosa si decide. Tanto che lo spettatore potrebbe legittimamente coltivare il proprio dubbio: il tempo del tennis è nella durata o nell’attimo? Anche in questa oscillazione fra lunghezza e istante – così come in quella tra sforzo fisico di prim’ordine e concentrazione psichica assoluta – questo jeu des rois mostra tutta intera la sua natura ambigua, sfuggente. Lo riassume bene Matteo Codignola: «il tennis è decisamente un gioco buffo, o strambo, o come vi pare. Mentre una partita di calcio si riassume abbastanza facilmente in cinque o sei azioni, una partita di tennis è fatta di decine e decine di punti (…). Sia per chi la gioca che per chi la guarda, si trasforma dal vivo in una centrifuga di frammenti incompleti, male assemblati e in molti casi incomprensibili, in una poltiglia visiva da cui (…) si stacca a volte un particolare anche troppo nitido». Proprio lavorando per espansione su un unico dettaglio visivo Codignola ha costruito le sue Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi «Fabula», pp. 290, € 22,00). Una ventina di storie, o meglio una ventina di «nodi narrativi» – in cui si intrecciano vicende e figure diverse – raccontati a partire da una serie di fotografie sbucate fuori da «una vecchia valigia di cuoio»: una sorta di sostituto sublimante o di lontano parente del bauletto portatile inventato e brevettato, nel 1874, dal barone Wingfield, che conteneva «una rete pieghevole, i due pali per sostenerla, il gesso con cui tracciare le righe, due racchette, quattro palline», e segnava sostanzialmente l’inizio della moderna fortuna del tennis.

Ci si convince una volta di più, leggendo queste Vite brevi, che non esiste gioco più freudiano del tennis. E per diretta conferma dell’autore, il quale lo paragona volentieri a un «sogno», mentre il tentativo di raccontarlo somiglierebbe addirittura a un’esperienza di «analisi», a un modo di addomesticare la propria mania di inseguire la pallina. Una partita, per esempio, può diventare anche una «doppia seduta di ipnosi» (così si legge di uno dei non molti match recenti che finiscono nelle attenzioni di Codignola, l’ottavo di finale del Roland Garros 2011 tra Fabio Fognini e Albert Montañés). Il ‘romanzo familiare’ di più di un tennista è spesso chiamato in causa, fino a scomodare suggestivamente la categoria di Parricidio per raccontare – in uno dei capitoli più belli, sul finale del libro – l’inizio del tramonto di Nicola Pietrangeli, auspice un Adriano Panatta ventunenne, che lo condanna alla sconfitta negli Assoluti del 1970. E non di rado serpeggia, fra queste pagine, la presenza stessa dell’eros. È così, per esempio, nel caso di Gussy Moran, il cui vestitino – realizzato dal malizioso stilista Ten Tinling, in seguito escluso dall’All England – attirò inevitabilmente gli occhi e il desiderio dei suoi spettatori, destando notevole scalpore nei dintorni dell’erba londinese, 1949, e abbassando di molto il grado di candore generalmente associato, a Wimbledon, al colore bianco degli abiti.

Le storie salvate da Codignola risalgono comunque a un’epoca che appare ormai lontanissima, quanto alla grazia elegante dei gesti dei loro protagonisti. Eppure una parte del loro fascino deriva forse dal fatto che gli Immortali che l’hanno animata si aggirano spesso ancora fra noi, sono in qualche modo i nobili custodi del circuito attuale. Basti pensare al già citato Pietrangeli. Ancora oggi il bel Nick – ricorda Codignola – «non si perde un incontro (…) anche perché appartiene all’ultima generazione per la quale il tennis guardato era importante quanto quello giocato», insieme a Rod Laver o a Manolo Santana. E certamente, allora, questo è un libro che riguarda non solo il tennis ma, implicitamente, anche l’atto di guardare il tennis, come testimonia la foto forse più bella dell’insieme. Uno scatto che ritrae l’allenamento di Vic Seixas e Ham Richardson, sotto gli occhi dei due Nani Potenti, gli australiani Lew Hoad e Ken Rosewall, i loro prossimi sfidanti in coppa Davis, impegnati però – più che nello studio degli avversari – in un’amabile conversazione (con Rosewall che accenna un sorriso). In certo senso, una mise en abyme del libro stesso, con la compresenza di spettatori e giocatori che, nel caso specifico, potrebbero anche scambiarsi di posto.
Sembra una splendida coincidenza, allora, che in questo stesso torno di tempo compaia un altro volume in cui il rapporto fra tennis, sguardo e aneddoto fa da principio compositivo. L’autore è colui che la «seconda età eroica» di questo gioco ha «conosciuta e raccontata meglio di tutti»: parola dello stesso Codignola, il cui ultimo paragrafo è appunto una sorta di omaggio a Gianni Clerici. Il nuovo lavoro di quest’ultimo, Il tennis nell’arte Racconti di quadri e sculture dall’antichità a oggi (Mondadori, pp. 336, € 36,00), è un elegantissimo patchwork di testimonianze figurative riguardanti questo gioco, descritte puntualmente dalle impeccabili schede di Milena Naldi, attorno alle quali cresce l’affabulazione dello «Scriba». Al lettore consigliamo anzitutto di percorrere diligentemente il libro, dal primo all’ultimo pannello. Ma chi, tuttavia, amasse già la penna di Clerici – e magari conoscesse la ricostruzione storica da lui consegnata al leggendario 500 anni di tennis – potrebbe anche aprire il volume come uno scrigno, e decidere di lasciarsi attrarre dal luccicare delle perle qui conservate, scegliendole senza badare troppo al loro ordine, con un tanto di sprezzatura. Gioielli – per la loro rarità, oltre che per la loro qualità – sono gli oggetti figurativi qui riprodotti: dalle fanciulle che giocano a palla e si sporgono da un mosaico del frigidarium di Piazza Armerina, fino agli inattesi Due tennisti dipinti nel 1930 da Mario Pannunzio. Non senza che si sfiorino anche certe sommità delle vicende artistiche novecentesche: si veda anzitutto l’Edward Hopper dei Tennis players (1916-’20), cui Clerici dedica una bella micro-analisi, nella quale l’attenzione agli abiti e, ancor di più, all’impugnatura western che fa da centro compositivo del dipinto ben si addice alla «puntigliosità oggettiva» con cui lo «Scriba» definisce la stessa arte hopperiana.

Ma gioielli sono poi anche le storie e, soprattutto, le memorie che Clerici ricava dai manufatti raccolti, memorie popolate di maestri – Giorgio Bassani, Gianni Brera – o di amori platonici – Lea Pericoli – o ancora di figure di sfondo o effimeri avventori. Il racconto riguarda non di rado alcuni tentativi di acquisto di opere d’arte da parte di Clerici, talvolta riusciti. Al lettore resta l’impressione che il libro abbia spesso a che fare con quel che non c’è, con l’aroma di qualcosa che si è perduto: un amico – come Carlo Levi Della Vita e Giorgio Soavi, cui il volume è dedicato – o un quadro cui, misteriosamente, non si è riusciti a risalire (come per Le tennis di Raoul Dufy, riprodotto qui da una cartolina). Come – pur diversamente – il libro di Codignola, anche le pagine di Clerici pagano il loro dolceamaro dazio a una musa affascinante: la Malinconia.