Ha fatto epoca la casistica, umana e dolente, raccolta da Tennessee Williams lungo un arco di mezzo secolo, dagli esordi sul finire degli anni trenta ai difficili anni settanta e ottanta, prima della morte in conseguenza di uno stupido accidente, inscenata – quasi uno dei suoi copioni – nelle stanze solitarie dell’Hotel Elysée in alto sul tran tran fra Madison e Park Avenue.
Giovani dattilografe fragili ed evanescenti, madri inebriate dall’odore funereo di giunchiglie, debuttanti avvizzite in cerca del proprio cuore, gatte selvatiche in négligé, siciliane necrofile dall’animo impietrito, dive sfocate per l’alcol e i barbiturici, pin-up immemori annerite dal sole di Spagna, avare matrone incoronate dal lusso huysmaniano di piante carnivore. E poi atleti impotenti, maschi bambini, gigolò sifilitici, vagabondi flessuosi, dandy in panama bianco, poeti sognatori imprigionati fra i graticci verticali di scale anti-incendio; stupri, castrazioni, incesti, ninfomania, cannibalismo, il rimosso inconfessabile su scena (al contrario che nella vita) dell’amore cui non è concesso dire il proprio nome: un nosocomio smisurato e febbrile a raccontare l’America maccartista, nel momento in cui l’uso mondano di Freud introiettava nella psiche di un popolo l’alienazione descritta da Marx, incenerito sul rogo della caccia alle streghe.
Un repertorio, insomma, bigger than life, non a caso omaggiato da cantori di una marginalità lirica e disperata (Rainer W. Fassbinder), da maestri del melò in technicolor (Pedro Almodóvar) o da registi capziosi, intellettualistici nel confronto col canone del Novecento (Woody Allen); allo stesso tempo però una galleria il cui éclat è sembrato appannarsi col trascorrere delle stagioni e delle mode per il rischio di un anacronismo irreparabile, il pericolo di un ridicolo serioso, il fardello appesantito di un camp integrale.
A distanza di un trentennio dalla scomparsa dell’autore, sepolto il postmoderno col suo gusto per l’eccesso stilistico e la facondia simbolica, stupisce allora verificare quanto Williams sia una figura attuale nell’immaginario statunitense.
Un volume recente – a firma di John Lahr – ne ha ritessuto l’esistenza, con l’obiettivo non logoro per la bibliografia dedicata al drammaturgo di separare la filologia dagli epici ricordi, dal gossip pettegolo; e a tal punto la curiosità attorno alla sua vita è condivisa dal pubblico che una pièce off-Broadway, debuttata alla metà di maggio, ha trasformato in soggetto odierno la storia dell’amichevole competizione fra il padre de Lo zoo di vetro e William Inge (cui si deve almeno una commedia perfetta, Bus Stop). Non solo. La mostra aperta in autunno al New Museum – le cui dichiarate ambizioni compendiarie attorno al tema del gender e alle sue declinazioni sono state commentate anche su queste pagine (10 dicembre 2017) – ne ha allegato a più riprese il nome fra le genealogie richieste per il catalogo agli artisti della selezione, accanto a Jean Genet o a Marsha P. Johnson. E del resto già nel 2006, introducendo una riedizione delle Memorie dello scrittore (edite per la prima volta nel 1975), John Waters – altra personalità ricorrente nelle ‘discendenze’ stilate per il New Museum – ricordava quanto l’universo di Williams andasse letto in chiave di queerness: «Tennessee non è mai sembrato ‘gayamente corretto’ e l’ambiguità o la confusione sessuale si sono sempre rivelate eccessive nei suoi lavori. ‘La mia categoria non sa chi io sia’, avrebbe affermato, stando alla sua stessa leggenda, e sebbene le vite sessuali dei suoi personaggi non apparissero sempre assennate, di certo si dimostravano appassionate. Tennessee Williams esorbitava dalla sua stessa minoranza; e questo mi diede la fiducia di poter fare lo stesso. Gay non era abbastanza».
Gode di questa curiosità anche la selezione presentata oggi alla Morgan Library (No Refuge but Writing), inclusiva di materiali archivistici, ephemera, fotografie e bozzetti conservati presso la collezione newyorkese o nelle raccolte di altri istituti, fra cui quelle dell’Harry Ransom Center di Austin, della Columbia University e della Library of Congress. È vero infatti che il percorso approntato per l’occasione si struttura nelle forme tradizionali di una monografica; ed è altrettanto evidente che, limitando il focus agli anni fortunati della carriera di Tennessee (quelli cioè compresi fra la produzione di The Battle of Angels nel 1940 e le riprese del film The Fugitive Kind, affidato alla regia di Sidney Lumet nel 1959), i curatori abbiano optato per una scelta ‘cauta’, legittimata dalle dichiarazioni del drammaturgo – il quale considerava una «stoned age» la fase critica cominciata col decennio dei Sessanta – ma confinata all’acme della sua parabola, familiare alla comunità di lettori e spettatori.
Tuttavia la mostra offre più di uno spunto per ripensare l’eccezionalità di Williams, in un certo senso evidenziando la misteriosa consistenza della sua compulsione creativa, i refrains poetici al centro di un universo di rappresentazioni, moventi per gli stessi personaggi chiamati ad abitarlo. Se l’ostensione di autografi e carte, di brogliacci e bozze sfiora in certi casi il feticismo religioso, caricandosi della valenza erotica, surrogatoria suscitata dal contatto con le reliquie, nel caso dell’artefice del Tram l’evidenza della ‘riscrittura’ punta al cuore della sua ispirazione. Il mestiere di Williams invero, ancorato a una sorprendente ma tenace regolarità quotidiana, fu dedito a un sistematico ripensamento, aperto alla possibilità di un’ennesima variazione, di volta in volta suscitata dal ricorrere assillante di temi e figure, dal consiglio fidato di amici e collaboratori, dall’autocensura, da improvvise tournures esistenziali, dall’impossibilità di risolversi attraverso un unico testo.
Laura Wingfield, Blanche DuBois, Serafina Delle Rose, Maggie contano dunque una serie inesauribile di antenate, sono costruite sugli echi infiniti di altre voci, di altre storie, che è utile e toccante ritrovare nell’esposizione della Morgan (al fianco di meditati, discreti rimandi biografici). Da una parte perché tale passato, presente in esse nelle forme sottili di una possessione spettrale, serve a arricchirne le parole e le azioni, a chiarirne omissioni e segreti; dall’altra in quanto un simile pedigree, sfaccettandone squisitamente i profili, giustifica la tormentata definizione raggiunta da ciascuna eroina in script e copioni. È noto come le commedie williamsiane venissero a volte recitate sotto l’esplicita etichetta di ‘work in progress’ (è il caso di Sweet Bird of Youth nel 1956); e altrettanto celebre è il connubio professionale con il regista Elia Kazan (cui si devono le prime messe in scena del Tram chiamato desiderio e di Camino Real), vissuta in quanto stimolo costante alla revisione e alla verifica dei testi da portare sul palco.
Nondimeno è efficace incontrare nel percorso le quattro conclusioni eventuali per La gatta sul tetto che scotta, in vista della première al Morosco Theater nel 1955 (ancora una regia di Kazan): l’accostamento consente di racchiudere in un solo sguardo motivi e impulsi, esclusi dalla versione finale del dramma e tuttavia allusi nel noto riferimento di Maggie alla ‘bellezza dei deboli’. In questo senso anche l’inserimento nel medesimo percorso delle versioni a stampa assume un suo significato pieno: secondo quanto spiegato in catalogo da un contributo di Carolyn Vega tale continua mobilità della scrittura costruì un dialogo altrettanto articolato con gli editori, costretti a inseguire la lirica irresolutezza delle opere teatrali, sottoposte a un inesausto processo di metamorfosi nel corso delle repliche e delle riprese.
La produzione di Williams, da subito implicata colla sfera flamboyante delle passioni, assume pertanto nella sua stessa architettura le dinamiche di un’ossessione siffatta: il tempo, l’attesa, la rêverie, la solidità fantasmatica del desiderio si traducono non solo nella schizofrenica quotidianità delle sue protagoniste ma fabbricano perfino la sua prassi di scrittura, in lotta continua con la qualità mortifera di una conclusione.