Lo confesso: mi sono sentito veramente incapace di scrivere della seconda parte dell’ultima stagione nerazzurra. Troppo amara la delusione dopo il bel calcio ammirato fino al 3 novembre scorso e troppe le variabili di cui dar conto per riuscire a spiegare in che modo una squadra che era riuscita a insidiare il primo posto in classifica dei bianconeri, andando a stravincere in casa loro, sia stata da quel momento in poi protagonista di una rotta sempre più rovinosa, al limite del grottesco. Troppe e senza alcun filo evidente che le connettesse le une alle altre.
Mi aiuta adesso un librino di Elio Matassi, filosofo e interista, intitolato Pensare il calcio (Il ramo, pp. 98, euro 15). In effetti, se si prescinde dal piazzamento e dal numero di sconfitte (trattasi di record negativi, il primo per l’era Moratti, il secondo per i campionati a 20 squadre), la stagione 2012-2013 non è stata dissimile da molte altre dell’Inter. Nata per scissione dal Milan, sotto il segno dei Pesci, la squadra nerazzurra – ricorda Matassi – ha da sempre abituato i suoi tifosi all’alternarsi di impennate gloriose e cadute rovinose: imprevedibili le une e le altre, e sempre maturate in un brevissimo torno di tempo. Una specie di alternanza tra Dr. Jekyll e Mr. Hyde, che ha reso quella nerazzurra l’unica squadra per la quale l’aggettivo «pazza» è usato davvero a proposito.
Questa cifra «ontologica» ha costituito per lunghi anni un orizzonte tendenzialmente intrascendibile. Un destino, saremmo tentati di dire, in cui tesi e antitesi (cioè vittorie e sconfitte) si ricomponevano immancabilmente in una «sintesi» il cui significato ultimo stava nel riconfermare eternamente che c’era stata, e c’era, un’unica, sola, vera «Grande Inter»: quella degli anni ’60 di Moratti (padre) ed Herrera. Qualcosa che ricorda assai da vicino la freudiana «coazione a ripetere», dalla quale, com’è noto, non si esce mai: giusto come dalla totalità dialettica hegeliana, che non a caso Kojève, nei suoi seminari parigini degli anni ’30, accostava all’idea della morte.
L’impressione è che Andrea Stramaccioni, il giovane tecnico nerazzurro giubilato a fine stagione, sia rimasto per l’appunto prigioniero di questo destino. Ereditata dalle gestioni precedenti una rosa che vedeva in posizione centrale molti (troppi) ultratrentenni, il mister ha dovuto improvvisare una preparazione atletica tale che i carichi di lavoro imposti ai più «giovani» non logorassero ulteriormente i corpi già spremuti dei «vecchi»: una cosa praticamente impossibile, che avrebbe richiesto – per dirla con un’altra suggestione di Matassi – che la dialettica fra le ragioni degli uni e quelle degli altri si componesse non già in una sintesi «conciliante» à la Hegel, ma semmai con un’estremizzazione delle differenze à la Benjamin.
Così non è stato e, complici le lunghissime ferie natalizie, al «picco di forma» conseguito a metà novembre ha fatto seguito uno strabiliante calo atletico, reso palese negli scontri con squadre anche non eccelse per qualità ma che, semplicemente, correvano. Lo 0-4 patito contro la Fiorentina, sotto questo profilo, non ha raccontato un storia differente rispetto all’1-3 contro il Siena o allo 0-2 con il Cagliari, né rispetto agli otto gol (otto!) rimediati nel doppio confronto con l’Udinese: non appena gli avversari giocavano in velocità, l’Inter andava in sofferenza; per contro, ove messa in condizione di giocare sui ritmi che sapeva reggere (e cioè, abbastanza compassati: un po’ come nelle partite che vedevamo da ragazzi), la squadra mostrava qualità a sufficienza per impensierire qualunque avversario, come è successo non solo contro il Chievo o il Parma, ma anche nel secondo tempo della partita di ritorno col Milan o nello sfortunato quarto casalingo di Europa League contro il Tottenham.
Il lunghissimo corteo di infortuni patiti dalla rosa nerazzurra (oltre 40) ha certificato questa realtà, costituendo inevitabilmente il tecnico a primo responsabile del disastro: perché se è vero che la squadra è – per dirla ancora con Matassi – una totalità che viene prima degli undici giocatori (più il parco riserve) che la compongono, non è meno vero che il primato olistico della squadra vale solo fintanto che non la si assuma come «totalità autosufficiente», alla maniera in cui gli economisti borghesi si illudono (e ci illudono) che funzioni il mercato concorrenziale, ma come totalità pianificata: ciò che, dopo la «Grande Inter» di Herrera, solo Mourinho ha saputo ricreare, redimendo – ha ragione, qui, Matassi – l’Inter dalla sua coazione a ripetere e trasformandola da vittima predestinata in vincente incondizionata.
Non così Stramaccioni. «Aziendalista» fino in fondo, poco importa se per scelta o per necessità, ha avallato tutte le decisioni passate sulla sua testa, finendo per restare prigioniero della stessa impasse in cui Moratti (figlio) è precipitato dopo il magico 2010: continuare a vincere, cancellando la memoria della «Grande Inter» di suo padre, o usare il paravento del Fair-play finanziario per tirarsi progressivamente indietro e lasciare che la storia torni a ripetersi sempre uguale? Come si sa, l’uomo è indeciso a tutto, e trattandosi au fond del rapporto con il Padre è ben comprensibile.
Nel frattempo, ci è toccato assistere al mesto tramonto di campioni del calibro di Zanetti, Cambiasso, Stankovic, Milito, Samuel e Chivu, ultimi reduci della gloriosa «tripletta» di appena tre anni fa, che hanno disputato partite sempre più mediocri e penose: un inglorioso canto del cigno di una generazione di atleti, che per molti versi ha ricordato la tristissima avventura degli azzurri vicecampioni del mondo al Mondiale tedesco del ’74, immortalata da Giovanni Arpino nel suo struggente Azzurro tenebra. Non è certo un caso che nelle nuove maglie dell’Inter il tradizionale royal blue sia stato appesantito in un midnight blue: al netto della recente e roboante vittoria in Coppa Italia contro un avversario certo non di rango, per l’Inter, al momento, è davvero notte fonda.
Certo, sull’esito finale della stagione passata hanno pesato numerosi e insistiti errori arbitrali. Una cronistoria ragionata delle decisioni «sfavorevoli» che l’Inter ha subito a partire da quel famigerato 3 novembre dell’anno scorso, meglio ancora se comparata con i trattamenti ricevuti nel girone di ritorno da chi ci ha preceduto in classifica al terzo posto (ossia il Milan), mostrerebbe facilmente che – al di là degli errori individuali e collettivi commessi dai nerazzurri – quello conclusosi nel maggio scorso è stato un campionato oggettivamente scarso e che i diciotto punti di distacco tra le due squadre di Milano non testimoniano certo di chissà quale superiorità dei rossoneri nei confronti della Beneamata
. Non abbiamo elementi per parlare di complotti, ma certo sovviene la «prostituzione intellettuale» di cui parlò Mourinho quattro anni fa: una prostituzione intellettuale così smaccata, così palese, da indurre in molti arbitri una faciloneria e un’approssimazione nei giudizi che mai si permetterebbero nei confronti della Juve o del Milan, che hanno ben altri mezzi (editoriali, comunicativi e di potere tout court) a loro disposizione e possono di conseguenza condizionarne pesantemente la carriera.
Proprio qui, peraltro, soccorre l’ultima suggestione che prendiamo a prestito da Matassi: l’immagine di Mourinho che leva i pugni in alto e simula le manette. Immagine completamente fraintesa dai giudici sportivi, che vi videro l’auspicio dell’arresto dell’arbitro Tagliavento e dei suoi assistenti, e con cui invece Mourinho, quasi un Houdini redivivo, invocava il suo ammanettamento: «Ammanettatemi pure, tanto io riuscirò a liberarmi».
Liberarsi, certo, dalla große Koalition anti-Inter, che recentemente ha tentato perfino di riscrivere la storia di Calciopoli, farneticando di un’assimilazione tra le telefonate di Giacinto Facchetti e quelle di Luciano Moggi. Ma liberarsi anche dalla coazione a ripetere di continuare a mimare una «pazzia» al solo fine di tornare a celebrare la memoria della «Grande Inter» degli anni ’60.
Il 9 marzo scorso, 105° compleanno della Beneamata, ho partecipato ad un festeggiamento organizzato in una trattoria milanese e alla fine della serata mi sono reso conto che di Mourinho e dell’Inter della «tripletta» non si era quasi parlato. Si direbbe solo una dimenticanza: e Freud annuirebbe, soddisfatto.