Nel 1971 l’artista americano Robert Smithson immaginava di costruire un sala cinematografica sottoterra. Questo cinema cavern non era tanto un riferimento alla caverna di Platone – metafora abusata e fuorviante in voga tra i filosofi che si occupano di cinema – quanto un tentativo di mettere in tensione due discipline lontane quali il cinema e la geologia, di riportarle per assurdo a una matrice comune. Il progetto non venne mai realizzato, in parte per la difficoltà di trovare una grotta o una miniera in disuso che si prestasse all’occasione (l’artista racconta di essersi recato a Vancouver, al Lago Cayuga nello stato di New York e in California), in parte per la scomparsa prematura di Smithson, vittima di un incidente aereo mentre sorvolava Amarillo Ramp, un suo earthwork nel nord del Texas in fase di lavorazione.

Di questa «atopia cinematografica», per citare un testo di Smithson, ci resta tuttavia uno schizzo preparatorio in cui si legge «the movie goer as spelunker», lo spettatore cinematografico come speleologo, accanto alla foto di un uomo ripreso di spalle che avanza in un corridoio striminzito. Con Smithson il cinema si fa letteralmente underground, un’etichetta allora diffusa nell’ambiente del cinema sperimentale americano che si opponeva al modello hollywoodiano. Su uno schermo scavato nella roccia e dipinto di bianco, sarebbe stato proiettato un solo film, un documentario sulla costruzione stessa della sala – un dispositivo tipico del cinema strutturalista – coi sedili di roccia e il proiettore protetto in una torretta di legno grezzo.

Che Smithson conoscesse a memoria La Jetée (1962) di Chris Marker non sorprenderà, se pensiamo alle scene ambientate dopo la Terza guerra mondiale nei sotterranei di Parigi, rifugio di un manipolo di scienziati che bisbigliano frasi in tedesco e conducono esperimenti sulla memoria della cavia-protagonista. Una cavia che, immobile, bendata e immersa nella sua reverie, sembra il modello dello spettatore cinematografico. Con un’intuizione brillante Marker, anziché ambientare la sua science-fiction in una sfolgorante astronave sospesa nell’iperuranio, scende nei sotterranei di Parigi, là dove giace la sua storia. Questa discesa verticale nello spazio e nel tempo è ormai un’esperienza accessibile al pubblico pagante. All’interno delle catacombe di Parigi è infatti ospitata l’esposizione documentaria La mer à Paris il y a 45 millions d’années (fino al 31 dicembre 2014), centrata sul patrimonio geologico parigino, la cosiddetta Era Luteziana. Un racconto sulla storia della Terra dentro la terra. In grande sintesi, 53 milioni di anni fa, giorno più giorno meno e comunque niente in rapporto ai 4500 milioni di anni della Terra, al posto della città che conosciamo vi era una pianura paludosa, una savana arboricola piena di mangrovie baciata, difficile immaginarlo, da un clima tropicale, con tanto di spiagge e di mare (viene in mente l’adagio barese «Se Parigi avesse il mare…»).

In tale ecosistema abbondavano coralli e molluschi, crostacei e gasteropodi, tartarughe marine e pescecani. Finché 47 milioni di anni fa arrivò il mare dal nord Europa, le deformazioni tettoniche formarono i Pirenei e nacque Lutezia. Il fango pietrificato diventò calcare. È l’epoca dei primi mammiferi – per la comparsa dell’uomo bisogna armarsi di pazienza (solo 200.000 anni fa). Se le catacombe si estendono sotto tutta la città – come una sorta di negativo della rete della metropolitana – la parte ufficialmente aperta al pubblico è assai limitata (un paio di chilometri). Vi si accede da un anonimo ingresso a Denfert-Rochereau, riconoscibile solo dalla fila interminabile che fa il periplo della piazza. Per un’inspiegabile ribaltamento, durante le vacanze pasquali, giorni di resurrezione, si poteva restare più di tre ore in coda per accedervi.

Raggiunto l’ingresso, si scendeva a venti metri sottoterra, a una temperatura costante di 14 gradi. Si tratta in realtà di una cava di calcare scavata nel XV secolo e consolidata dall’Inspection générale des carrières a partire dal 1777. Un intervento necessario, considerata l’importanza del luogo: senza le estrazioni di calcare non vi sarebbero, ad esempio, le arene di Lutezia (fine I sec.), le terme di Cluny (inizio II sec.), i monumenti gotici, Notre-Dame. Le cave divennero tuttavia presto un ossario: sin dal 1786 vi furono depositate le ossa del cimitero degli Innocenti e di altri cimiteri. I sotterranei di Parigi si trasformarono così in una sterminata necropoli che finì per ospitare oltre sei milioni di scheletri. Diventato ossario municipale, venne aperto al pubblico nel 1809. Per l’occasione le ossa furono disposte in composizioni decorative come fossero cestini di frutta, disposte all’interno di un percorso in cui si succedono altari, colonne doriche, fontane, lastre incise, cabinets mineralogici. Cava di calcare, necropoli, museo-mausoleo, le catacombe di Parigi offrono al visitatore una discesa vertiginosa nel tempo.

In pochi minuti si passa dal contingente livello dell’asfalto a un paesaggio risalente a 45 milioni di anni fa; da un paesaggio urbano con le sue coordinate assiali a un ambiente astratto senza dimensioni; dalla linearità cronologica degli orologi che scandisce la vita in superficie a una stratigrafia temporale in cui la storia della città è iscritta sulla pietra, su una successione di strati geologici spessi 24 metri. Quest’altalena convulsa è spezzata giusto prima di uscire, quando il turista s’imbatte nel Comptoir des catacombes. In vendita c’è un ricco bric-à-brac di gadget con un teschio: penne, accendini, bloc-notes, spille, tazze, ossi di cane, calici, adesivi per il frigorifero, tappi per le bottiglie, portachiavi e persino un accendino il cui messaggio fa impallidire l’«Arrête, c’est ici l’empire de la mort» affisso all’ingresso dell’ossario: «Keep calm and remember you will die». Un ammonimento un po’ nefasto per concludere una visita e una recensione.

La zona del Trocadéro è conosciuta dai cinefili per aver ospitato, nel Palais de Chaillot, la Cinémathèque fortissimamente voluta dal visionario Henri Langlois, figura-chiave per la generazione della Nouvelle Vague. La sua figura è oggi celebrata in una mostra che ne ripercorre la carriera (Le musée imaginaire d’Henri Langlois alla nuova Cinémathèque, unico edificio di Frank Gehry in Francia, fino al 3 agosto). Ma nel 2004, al Trocadéro, a circa 18 metri sottoterra, è stato scoperto un cinema sotterraneo e clandestino. Un cunicolo telesorvegliato e protetto dalla registrazione di cani che abbaiano sbucava su una sala di 400 metri quadri, con gradini tagliati nella pietra e sedie per una ventina di persone, uno schermo, un proiettore, diverse bobine di film noir degli anni cinquanta e thrillers più recenti, persino una macchina per fare non popcorn ma couscous.

Da dove veniva l’alimentazione necessaria per far funzionare il proiettore? Come interpretare i graffiti sul soffitto con svastiche, croci celtiche ma anche stelle di David? Chi erano gli autori e i complici di tale cinema cavern? Pochi giorni dopo la polizia fece un secondo sopralluogo ma nel frattempo qualcuno aveva smontato tutto, lasciando solo un laconico biglietto: «Ne cherchez pas». Nella sezione sulle catacombe e le démolitions dei Passages, Walter Benjamin scriveva: «Ancora oggi, per due franchi si possono comprare i biglietti d’ingresso per visitare questa Parigi tenebrosa, molto meno cara e pericolosa di quella superficiale». Tuttavia riconosce che questa chance era un’eccezione: sin dal Medioevo «furbi individui si dichiaravano disposti, dietro forti compensi e promesse di silenzio da parte dei concittadini, a scendere lì sotto per mostrare il diavolo nella sua maestà infernale». Lo spettatore speleologo era nato.