Forse non tutti conoscono la storia di san Francesco e il lupo. Gubbio al tempo – siamo nel 1208 stando a quanto racconta Tommaso da Celano biografo del santo – era stremata dalle continue incursioni di un lupo che faceva strage di animali e persone, tanto pericoloso da costringere gli abitanti a rimanere rinchiusi in casa o, se costretti, a girare armati fino ai denti. San Francesco, vedendo la popolazione così impaurita, decise di andare a parlare con il lupo e riuscì a renderlo mansueto, promettendogli ogni giorno il cibo necessario. Quando morì, due anni dopo, gli abitanti ne furono addirittura dispiaciuti, abituati ormai a vederlo girovagare tranquillo per la città.

Gli umbri sanno del lupo e di san Francesco fin da bambini, così come sanno da sempre perché mangiamo il pane sciapo e perché la Rocca Paolina di Perugia venne distrutta non appena fu possibile farlo. I due fatti sono correlati e hanno origine con la guerra del sale del 1540: Perugia contro il papa, Paolo III Farnese, che aveva imposto ai perugini un’ingente tassa sul sale. Vinse il più forte, il papa, che a monito fece costruire sopra il quartiere dei Baglioni, i signori di Perugia, la sua maestosa Rocca Paolina, opera del Sangallo. Perciò i perugini iniziarono da allora quella che ormai è una delle tradizioni umbre più consolidate, mangiare il pane senza sale, sciapo. Dopo 320 anni, con l’annessione al Regno d’Italia del 1869, gli abitanti di Perugia non persero un minuto e come primo atto da cittadini italiani iniziarono a distruggere a mano, pietra per pietra, la Rocca Paolina (cosa che avevano tentato di fare anche nel 1798 con la prima occasione utile data dall’arrivo delle truppe napoleoniche nella regione) simbolo di un potere che non hanno mai amato.

Il carattere degli umbri è racchiuso in queste due storie: da una parte la spiritualità e dall’altra la tenacia. Non una spiritualità legata esclusivamente alla cristianità, ma una dedizione alla contemplazione, alla ricerca di equilibrio, al ritmo lento e riflessivo, al silenzio, con la caratteristica sfumatura della chiusura – apparente – al prossimo.

Tutto quello che riesce benissimo in un territorio come questo: dove colline dolci si alternano a pianure non troppo estese e fiumi che scorrono a lungo prima di buttarsi in mare, dove l’Appennino crea un paesaggio unico al confine con le Marche, i Monti Sibillini. Qui la spiritualità si può ascoltare nelle leggende della Sibilla Appenninica che di notte danzava al chiaro di luna attorno al Lago di Pilato dopo un bagno nelle sue acque cristalline (le stesse acque che secondo un’altra leggenda inghiottirono il corpo suicida di Ponzio Pilato), o delle sue fate che scendevano dalle montagne fino a Norcia per ballare fino a tardi con i giovani del luogo e fuggire nella nebbia lasciando impronte caprine. Oppure la si può guardare esplodere nei colori della Fiorita della Piana di Castelluccio, quando non bastano due occhi per ammirare quella distesa soffice e variopinta, il cui paesaggio è mosso solo da una collinetta dove le case in pietra semplice si addossano l’una alle altre come per proteggersi dal freddo che fa lì in inverno, dando vita al paese di Castelluccio di Norcia.

Gli Umbri sono molto poco avvezzi al cambiamento, specialmente se imposto, lo guardano con diffidenza, lo studiano e solo poi interagiscono con la novità. Hanno le radici profondamente legate alla terra e a un passato antichissimo: Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia, parlando della popolazione degli umbri, la definisce come «la più antica d’Italia, si crede infatti che gli umbri fossero stati chiamati ombrici dai greci perché sarebbero sopravvissuti alle piogge quando la terra fu inondata». Conoscono la propria terra e i rischi dell’abitarla, scelgono di accettare e cercano di ridurre al minimo la pericolosità di questi ultimi, si arrabbiano se le conseguenze diventano quasi irrimediabili. Ma facendo appello alla nostra memoria collettiva sappiamo che è sempre possibile avere la nostra rivincita.

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