Nel quadro della poesia novecentesca conviene spesso cercare il punto di fuga in cui le linee parallele del verso e della prosa tendono a incontrarsi all’infinito, senza mai toccarsi davvero.

Per Montale era appunto nella prosa il «grande semenzaio» della poesia; ma anche prima e dopo di lui, le tensioni prosastiche sono state oggetto di pratica sperimentale, analisi teorica, riflessione storica da parte di poeti e critici.

La questione è nota, non per questo risolta.

Ogni tentativo di misurazione o anche solo di definizione di un ipotetico ‘tasso di prosaicità’ verrebbe frustrato da variabili soggettive (come la coscienza e l’atteggiamento di un poeta verso la prosa, la sua disposizione o intenzione) e oggettive. Tra le seconde, la variabile più delicata riguarda l’idea stessa di prosa e il suo rapporto con una categoria falsamente affine: quella di narrativa. Un rapporto non meno ambiguo, del resto, di quello che s’instaura fra poesia e lirica.

Molta poesia del Novecento riceve l’influenza della prosa e della narrativa, ma ciascun poeta è prosaico o narrativo a modo suo. Ognuno insegue il proprio il fantasma della prosa: se proviamo ad afferrare quell’ombra, le braccia si richiuderanno nel vuoto; se invece cerchiamo di capire cosa vede e dove va il poeta hanté, avremo della sua opera e delle sue ragioni un’idea più solida.

L’interferenza fra prosa e narrativa, e fra poesia e lirica, può generare paradossi, spesso però molto vitali, soprattutto nella poesia del secondo Novecento.

L’opera di Attilio Bertolucci (1911-2000) ne è uno dei migliori esempi: La camera da letto (1984-1988), tra i libri importanti della letteratura italiana di fine secolo, è un capolavoro paradossale.

Lo è non tanto perché si definisce come ‘romanzo’ in versi, quanto perché, pur assimilando tratti e modelli narrativi, è un libro che non racconta ma rappresenta, non narra ma descrive o forse ‘dipinge’ – vedremo in che senso.

Per celebrare il ventennale della scomparsa del poeta, il poema di Bertolucci viene ora ristampato da Garzanti (La camera da letto, con prefazione di Nicola Gardini («I grandi libri», pp. XV-391, euro 18,00), insieme ad altri due volumi.

Si tratta della raccolta Viaggio d’inverno, uscita nel 1971, ora riproposta con una prefazione di Giovanni Raboni (ivi, pp. XI-145, euro 13,00); e di un ‘libro di famiglia’, costituito da testi editi e inediti, implicato per temi e situazioni e in parte coincidente con le opere in versi: Attilio e Ninetta Bertolucci, Il nostro desiderio di diventare rondini Poesie e lettere, a cura di Gabriella Palli Baroni («Saggi», pp. 528, euro 35,00).

Nel saggio premesso a Viaggio d’inverno, originariamente apparso in «Paragone-Letteratura», Raboni distingueva Bertolucci dai coetanei Sereni e Luzi, confrontando certi tratti dello stile maturo dell’uno e degli altri; in particolare – osservava – è estraneo al poeta della Capanna indiana e del Viaggio quell’avvicinamento al parlato che è sintomo e strumento tra i più rilevanti di tendenza alla prosa o di alternativa all’intonazione lirica.

La discriminante starebbe «nel fatto che Bertolucci, anziché usare il senso naturale, o logico, del discorso come un preciso strumento di deformazione (…) assume il senso del discorso come una sorta di abbozzo, di disegno preparatorio da modificare coprendolo».

La similitudine pittorica introdotta da Raboni offre lo spunto per un confronto ulteriore fra il piano della scrittura e quello della raffigurazione in Bertolucci. Come dicevo, la sua poesia, anche quando si distende in narrazione, parte in realtà da un’ipotesi figurativa. La competenza di Bertolucci in questo campo, maturata sulla scia del magistero bolognese di Longhi, è testimoniata dai suoi scritti e lezioni sull’arte.

Del resto, sono frequenti anche nella sua poesia i riferimenti pittorici; in Viaggio d’inverno per esempio s’incontra il Ritratto di un uomo malato:

Questo che vedete qui dipinto in sanguigna e nero
e che occupa intero il quadro spazioso
sono io all’età di quarantanove anni, ravvolto
in un’ampia vestaglia che mozza a metà le mani»;

«Sono io appartenente a un secolo che crede
di non mentire, a ravvisarmi in quell’uomo malato
mentendo a me stesso: e ne scrivo
per esorcizzare un male in cui credo e non credo».

La poesia mostra che per Bertolucci l’arte non è solo un contesto da cui prelevare motivi e oggetti; è piuttosto una forma di percezione di sé e della propria vicenda umana e famigliare, proiettata in un quadro e osservata. L’obiettivo non è di rinunciare al pathos, ma di cogliere l’origine e lo sviluppo di eventi e affetti attraverso un’immagine, una visione.

Perciò se la poesia di Bertolucci può essere definita narrativa è perché, come in un’ekphrasis, descrivendo un’immagine finisce per trasformarla in racconto.

Ne consegue un effetto caratteristico in particolare della Camera da letto, cioè una sorta di spazializzazione del tempo; nel libro infatti, che anche per questo rappresenta il culmine di un’esperienza poetica e di un pensiero artistico maturato lungo l’arco di una vita (la prime tracce o idee risalgono agli anni cinquanta, ma l’aspirazione al romanzo nasce vent’anni prima), la temporalità non ha una dimensione cronologica bensì rituale: «il quotidiano, il banale, il contingente – scrive Gardini nella Prefazione – si eleva in rito».

Le indicazioni cronologiche (anni, date) sono poco più che una segnaletica estrinseca rispetto alla natura dell’esperienza; anche i momenti individuati (giorni o mesi) hanno una consistenza più iterativa che singolativa. Il tempo cioè non trascorre ma si ripete, può essere ripercorso à rebours e tollerare la compresenza ideale di fatti e persone separate dagli anni; è una dimensione che, con Bachtin, possiamo definire ‘assiologico-temporale’, determinabile cioè non in base alla distanza cronologica, ma in base al sistema di valori proprio dell’epoca e della società rappresentate.

È il tempo dell’epica, più che del romanzo; ed è infatti un’epopea famigliare quella che La camera da letto racconta. Ma il rilievo dell’iterazione nella struttura del libro dipende anche da modelli più vicini, come la Recherche: «invidiavo da sempre i romanzieri – si legge in una nota d’autore purtroppo non riprodotta in questa nuova edizione – per quel loro personaggio velato e sfuggente, il Tempo, che dall’Odissea alla Gerusalemme (…) si è portato alla Recherche». Nella stessa nota, Bertolucci rivela che il titolo della prima parte, Romanzo famigliare, sarebbe «vagamente» ripreso da quello del saggio di Freud (Romanzo famigliare di un nevrotico).

Ma, al di là di quest’allusione, si capisce come la dimensione famigliare non sia solo tema ma procedimento: nel susseguirsi e ripetersi delle generazioni si compie infatti il sentimento mitopoeitico dell’io che si proietta nella durata, nella continuità.

Per questo, il volume di poesie e lettere tra Attilio e la moglie Ninetta (Evelina Giovanardi), pur non essendo un libro d’autore, rappresenta un prezioso complemento all’opera di Bertolucci.

Ideato dai famigliari del poeta e curato da una delle maggiori esperte della sua opera (a Palli Baroni si devono, tra l’altro, l’edizione del «Meridiano» con Paolo Lagazzi e del carteggio Bertolucci-Sereni), il libro si apprezza specialmente per il carteggio, composto da 234 missive, per la maggior parte di Attilio, che vanno dal 1930 al 1966 (a quell’anno risale l’ultima lettera, indirizzata dal poeta ai figli Bernardo e Giuseppe).

Sono lettere belle e rare, nel panorama epistolare dei poeti del Novecento, vuoi per l’equilibrio tra intensità e sincerità, vuoi per la parità fra i due corrispondenti.

Dal carteggio emerge infatti la storia di due giovani fidanzati e poi coniugi che scrivono d’amore ma anche delle rispettive ambizioni e formazioni, del romanzo che Attilio vorrebbe scrivere incoraggiato da Ninetta, di letteratura (la scoperta di Pound), di jazz e di film (l’esperienza del cinema è spesso occasione di dialogo).

È in questa condivisione che sembra formarsi, di lettera in lettera, anno dopo anno, l’immaginario di quell’epica domestica compiuta nelle poesie e nel romanzo in versi. «Ma se lo vedessi inginocchiato a sentire le lunghe commedie che io gli ammanisco» scrive Attilio a proposito del piccolo Bernardo, in una lettera a Ninetta del marzo ’44; «Sono un regista, un autore ben povero. Ma supplisce la fantasia».