Keep it in the ground! / Tenetelo sottoterra! Era uno degli slogan dei ragazzi dei Fridays for Future che sottoterra vogliono tenerci il petrolio (e il gas) per abbassare la febbre al pianeta. Ora a ripetere lo stesso concetto è l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) che nel suo report Net Zero by 2050 (Zero emissioni nette entro il 2050) scrive che non servono nuovi investimenti in combustibili fossili, oltre a quelli già decisi nel 2021, se il mondo vuole incamminarsi sulla via della de-carbonizzazione dell’atmosfera.

LE RISERVE DI PETROLIO nel sottosuolo sono troppo abbondanti per aspettare che si esauriscano, come la teoria del picco del petrolio aveva fatto intendere e sperare fino a qualche anno fa: secondo la Statistical review of World Energy (2019) ce ne sono 1.733,9 miliardi di barili, secondo il Servizio Geologico degli Usa i barili sarebbero più di 2 mila miliardi. Al ritmo di 35 miliardi di barili anno (consumi 2019, pre-Covid), ne avremmo almeno per 50/60 anni, troppi di fronte all’emergenza climatica che incalza. Parliamo solo di giacimenti certi: nessuno può escludere che se ne possano scoprire altri o che si mettano a punto tecnologie per sfruttare le cosiddette «risorse tecnicamente recuperabili».

L’INVITO AI PETROLIERI A TROVARSI una diversa occupazione è una svolta epocale da parte di un’agenzia internazionale nata nel 1974 per garantire ai suoi stati membri (30 economie avanzate, tra cui l’Italia) le forniture di greggio. Ma non basta disinvestire nelle fonti fossili – altro slogan delle piazze Fff: la transizione energetica, dice oggi la Iea, si deve avviare spingendo l’acceleratore sulle rinnovabili, sull’idrogeno, sulle bioenergie, sull’elettrificazione dei consumi, sull’efficienza energetica, oltre che sui discussi e discutibili sistemi di rimozione di anidride carbonica dall’atmosfera. Non sarà facile, seconda la Iea, ma nemmeno impossibile.

PER SCALZARE PROGRESSIVAMENTE il petrolio, nello scenario Iea, la comunità internazionale dovrebbe moltiplicare per 2,5 gli investimenti in rinnovabili da qui al 2030 (da 2 trilioni di dollari a 5), e poi quadruplicarli entro il 2050 per arrivare «ad una completa trasformazione di come produciamo, trasformiamo e consumiamo energia». Una trasformazione che nell’Unione Europea ora è imposta dalla legge sul clima che ha come obiettivo un taglio del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030 rispetto al 1990, come tappa intermedia della neutralità climatica entro il 2050. La legge è stata approvata dal Parlamento europeo il 24 giugno, con il voto contrario dei Verdi che avrebbero preferito un obiettivo più ambizioso, un taglio del 65%, come suggerito dalla comunità scientifica.

COSA SIGNIFICA PER UN PAESE COME L’ITALIA centrare questi obiettivi? «Il problema è che il nostro paese non ha ancora definito questo percorso – spiega Edo Ronchi, presidente della Fondazione Sviluppo sostenibile e di Italy for Climate – in questo momento non siamo in grado di valutare fino a che punto le misure del Pnrr concorrono alla decarbonizzazione, perché il Pniec, il piano italiano per l’energia e il clima, non è stato aggiornato, è ancora fermo a un taglio del 37% delle emissioni».

IL PNIEC DOVREBBE FISSARE SCADENZE e misure concrete, fondamentali per orientare le politiche industriali come le scelte individuali, che secondo la Iea possono incidere per metà sul taglio delle emissioni: una data certa per la fine delle caldaie a gasolio (da sostituire con pompe di calore elettriche) e dei veicoli con motore a benzina e diesel, ibridi compresi, per fare qualche esempio. Secondo Italy for Climate, per allinearci agli obiettivi di de-carbonizzazione del 2030, l’Italia dovrebbe tagliare dell’1,5% l’anno i consumi finali di energia, che invece continuano a crescere malgrado i passi avanti nell’efficienza, tagliare del 40% i consumi di petrolio e metano, azzerare quelli di carbone, raddoppiare le fonti rinnovabili nella produzione di elettricità, nel riscaldamento e nei trasporti, il che nel concreto implica, per esempio, quadruplicare il tasso di riqualificazione degli edifici (50/60 milioni di metri quadrati ogni anno) e, in un’ottica di economia circolare, riciclare il 60% dei rifiuti e togliere dalle strade 1 milione di automobili l’anno.

«GLI OBIETTIVI DI DE-CARBONIZZAZIONE non si possono raggiungere se non diciamo basta ai sussidi alle fonti fossili: è anche per questo motivo che abbiamo votato contro la legge sul clima a Strasburgo – dice la parlamentare europea dei Verdi (transfuga M5S), Eleonora Evi – nella legge non c’è una data certa, né c’è traccia di un impegno preciso. Stiamo qui ancora a parlare di monitoraggi, calcoli armonizzati delle emissioni: non è un bel biglietto da visita per la Cop26».

ANCHE RONCHI CONCORDA che l’obiettivo del taglio degli incentivi attorno al 2040 è troppo lontano. Semmai sulle fonti fossili va applicata una carbon tax: «Bisogna dare un segnale che le fonti fossili costano di più perché fanno danni: il carbon princing è necessario se vogliamo liberarci dal petrolio. Naturalmente va applicata con misure compensative a livello sociale. Se ci affidiamo ai meccanismi di mercato non possiamo pensare di fare la transizione energetica».

L’ASSOCIAZIONE ELETTRICITA’ FUTURA che rappresenta il 70% delle aziende che producono e vendono elettricità da fonti rinnovabili e non, ha calcolato che il settore elettrico italiano, per adeguarsi al target europeo, dovrà ridurre le emissioni di 50 milioni di tonnellate nel prossimo decennio rispetto al 2020. Le rinnovabili nel mix elettrico italiano dovranno passare dall’attuale 38% al 70%, mentre nel settore trasporti e termico dal 17% dovranno aumentare al 37%.

I BENEFICI ECONOMICI SONO NOTEVOLI, secondo Elettricità Futura, dell’ordine di circa 100 miliardi di euro, con un risparmio sulla bolletta petrolifera pari a 21 miliardi di euro l’anno nel 2030.

Per scalzare il petrolio serve incrementare in 10 anni di 70GW la capacità delle fonti rinnovabili, prevalentemente solare (50 GW) ed eolico (13 GW): di queste, il 21% sarà capacità distribuita, cioè verrà dallo sviluppo delle comunità energetiche e dall’espansione dei piccoli impianti fotovoltaici.

DUNQUE, L’INCREMENTO MEDIO dovrebbe essere di 7 GW all’anno: però all’ultima asta per l’assegnazione degli incentivi del GSE, su 2,4 GW di potenza incentivabile, le richieste sono state pari a 0,3 GW, quindi è stato assegnato solo il 12 %.

LE RAGIONI DI QUESTO STALLO non sono nuove: eccesso di burocrazia, che rende lento e farraginoso il processo autorizzativo, e difficoltà a trovare siti idonei per l’installazione degli impianti da parte del Ministero dei Beni Culturali. «I capitali da investire ci sono e la capacità tecnica delle imprese è all’altezza della sfida, non è il programma dei sogni – assicura il presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo – ora serve snellire gli iter autorizzativi per le rinnovabili, perché questa lentezza va a incidere sui costi: le imprese italiane sostengono i costi più alti d’Europa per ottenere le autorizzazioni».

QUALCHE VOLTA AD OPPORSI all’installazione di impianti eolici e fotovoltaici sono comitati locali, ma più forte, secondo l’esperienza di Re Rebaudengo, è la sindrome Nimto (Not in my term office, non nel mio mandato), quando a dire no sono le parti politiche all’opposizione che strumentalizzano le scelte degli avversari. «Non credo che nel nostro paese non ci siano aree idonee per queste attività – commenta Ronchi – per superare queste difficoltà andrebbero coinvolti maggiormente Comuni e Regioni nelle scelte, oltre che le comunità locali».

PER AUMENTARE L’ACCETTABILITA’ degli impianti, una strada possibile è quella di socializzare i benefici che ne derivano, in termini di minori costi energetici per il territorio che li ospita o come possibilità di investimento per la popolazione, tattica usata per esempio in alcune località in Germania, dove sta funzionando perché le energie pulite sono percepite come un’opportunità vantaggiosa ed appetibile.