Porta via un po’ di polvere da letture sempre più rarefatte e comunque spesso riduttive il bel libro del critico Maurizio Grande, Marco Ferreri (Bulzoni) che monta una serie di articoli e saggi costruendo una biografia che è sia critica che esistenziale del regista italiano (grazie al prezioso lavoro di curatela di Alessandro Canadé). Un lavoro lodevole che si sostiene grazie ad una scrittura raffinata e godibile, quasi nostalgica nella sua affabile precisione.

Ferreri come la sua arte prendono forma attorno ad una ripetizione di tempo che sfugge il tempo, che più volte lo tradisce in nome di una ricerca di senso straordinaria e mai banale. La ripetizione è infatti errore, distinzione perché mai ripetere è uguale alla prima volta e mai la seconda è uguale alla terza. Un estenuante gioco che fa del divertimento una barriera protettiva contro la tragedia, ma non nel senso di una consolazione rispetto alla durezza (mai celata) della vita come dell’opera.

Cinefilo nell’essenza il regista, scomparso nel ’97, ha tracciato in Nitrato d’argento la sua personale storia del cinema dal punto di vista della tecnica – si potrebbe dire il cinema visto con gli occhi del chimico. Ed è proprio questo sguardo razionale, da etnografo della materia che colpisce e sfida lo spettatore: il motivo di fare e vedere cinema, di avere un colore e un suono diviene il senso esistenziale e politico di essere non solo spettatore, ma parte in causa dello sguardo.

Bisognerebbe abbandonare l’idea del Ferreri solo comico e grottesco. La tragedia e questo sono due degli aspetti cruciali della sua opera che non si realizza mai per mezzo del grottesco, ma si sovrappone: la tragedia è l’a priori e non sarà il grottesco a rivelarla e tanto meno a giustificarla. Ferreri lavora con consapevolezza e precisione che significa abilità nel mischiare, sapienza nel confondere perché solo così si dà e si prende vita.

Il tempo grottesco è un aspetto esteriore di un discorso raffinato condotto con consapevole maestria da uno dei più grandi artisti del Novecento, capace di utilizzare una scala infinita di piani emotivi, ma sempre riconoscibili e soprattutto riconducibili all’azione dei personaggi: una coerenza estrema che permette oggi di rileggere il lavoro di Ferreri nell’ottica di una lucidità illuministica che faceva volentieri a meno delle ideologie allora imperanti, ma non certamente dei codici di riconoscimento sociale e politico. E che fa del regista uno studioso del contemporaneo non storicizzabile perché ancora oggi, senza alcun imbarazzo, è capace con i suoi film di raccontare l’insensatezza di un futuro inevitabile solo all’interno di una contemporaneità assoluta e quindi infinita.

Maurizio Grande definisce con precisione «scrittura celibe» il modo di costruire – o meglio di scrivere – l’immagine di Ferreri: un’inquadratura che non definisce i limiti, ma rifila gli spazi, una visuale mentale che elimina ogni centralità nell’inquadratura, e costruisce con il montaggio una relazione tra i personaggi e gli oggetti in scena. Un eccezionale discorso sul movimento che è sia gioco tra oggetti e persone, che incedere del tempo. In questo modo nulla è centrale, ma nulla è escluso perché quello che sta per accadere è sì fuori scena, ma solo per un attimo e in uno slittamento continuo, che totalizza lo sguardo, la storia appare come un pensiero circolare in cui inizio e fine non sono che dei cliché.

Quanto sarebbe oggi necessario Marco Ferreri è banale pensarlo; ci sono i suoi film che sarebbe bello fossero più facilmente disponibili e ci sono soprattutto le sue storie. Discorsi liberi in cerca di senso privi di voyeurismo o di normalizzazione. Un cinema che all’apparire ossessivo non oppone una negletta sparizione, ma una liberazione che nasce dalla necessità di vivere.

Chiude il libro di Maurizio Grande un ricco apparato filmografia e bibliografico preceduti da una bella intervista a Marco Ferreri del 1979 dedicata a Chiedo asilo nella quale il regista avverte: «Il mio non è un cinema di problemi, ma un cinema di sensazioni. Io voglio mettere insieme le fotografie delle sensazioni che sono generali».