Le borse festeggiano, lo spread precipita e persino per l’opposizione, in Italia, diventa difficile storcere il naso di fronte al Next Generation Eu. «È un passo avanti ma il fattore tempo è indispensabile», afferma in mattinata il leghista Molinari e Meloni, pur mettendo le mani avanti perché «quando sento parlare di riforme strutturali ho i brividi», ammette che «in Europa qualcosa si muove». I 5S devono inventarsi una formula adeguata al passato euroscettico e Crimi la trova accreditando al pugno duro del governo italiano la svolta o almeno l’innegabile sterzata: «La linea della fermezza paga». Come dire: abbiamo piegato l’Europa.
Certo la partita non è chiusa e nel day after sono in molti a segnalarlo. In realtà nessuno pensa davvero che i Paesi frugali, i quali del resto hanno calibrato bene la reazione negativa, riescano a snaturare la proposta von der Leyen. Il timore è casomai che, un po’ per la trattativa con frugali, un po’ nelle pieghe di quello che diventerà un progetto ricco di «dettagli», emergano aspetti peggiorativi rispetto alla proposta della presidente. Ma è una sfida che l’Italia sa di poter affrontare contando su ottime alleanze, tanto a Bruxelles quando a Berlino e Parigi. Tra i dettagli da verificare ci sarà anche la quantificazione del rimborso dei sussidi a fondo solo nominalmente perduto, sotto forma di aumento del contributo annuale italiano al bilancio europeo. Probabilmente, ma si tratta ancora solo di ipotesi, passerà da 16 a 21 o 22 miliardi. Tenendo conto anche del credito italiano rappresentato dai contributi sin qui versati, alla fine il saldo dovrebbe rivelarsi positivo per una cifra oscillante intorno ai 25 miliardi.

Più spinoso il «fattore tempo». Anche da questo punto di vista, se la tabella indicata da von der Leyen sarà rispettata, la Commissione avrà comunque fatto in pieno la sua parte. Basti pensare che quando la partita del Recovery è iniziata ben pochi speravano in un arrivo dei sussidi prima del 2022, mentre nel progetto della presidente il piano pluriennale dovrebbe scattare, previa approvazione dei parlamenti europeo e nazionali, a inizio 2021. Ottimo ma non abbondante: per l’Italia è tardi. Dunque, inevitabilmente, tornerà in primo piano la scelta sul prestito Mes, che permetterebbe di deviare su altre voci le spese sanitarie, non rinviabili. Forse non risolverebbe, ma alleggerirebbe la pressione sulla liquidità.

Il Pd è partito ieri all’attacco, senza mettere in campo i pezzi da novanta per evitare tensioni nella maggioranza ma con una raffica di dichiarazioni a sostegno del prestito di 27 miliardi per la sanità, disponibile già da giugno. Per i 5S, che restano l’ostacolo sulla strada dell’accesso al Mes, si fa sentire il presidente della Camera Fico, con parole che sembrano di chiusura ma sono vicine all’opposto: «Grazie al Recovery potremmo non aver bisogno del Mes». Il condizionale è d’obbligo…

Ma la vera ombra sull’efficacia del Recovery è rappresentata dai limiti eterni della politica e dell’amministrazione italiane. Gentiloni ieri è stato chiaro sulle condizionalità: «Non sono da troika. Semplicemente se viene concordato un progetto, con obiettivi e tappe, e poi non si realizza perdi la tranche». Come la lunga e poco brillante parabola dei contributi europei che non si sono mai riusciti a investire dimostra, realizzare i progetti non è affatto semplice per l’Italia. Le riforme annunciate da Conte per risolvere il problemino, che dovrebbero peraltro essere anch’esse parte delle condizionalità europee, sono da far tremare le vene ai polsi. A partire dalle note dolentissime della giustizia e della Pubblica amministrazione.

Il governo pare voler puntare soprattutto su una ambiziosa riforma fiscale, sulla quale Gentiloni sembra nutrire qualche dubbio («Non è il momento di mettere bandiere e bandierine»). Per ora è stata annunciata dal ministro Gualtieri solo per titoli e con lo slogan indiscutibile, «pagare tutti per pagare meno». Obiettivo, la sconfitta dell’evasione, che dovrebbe essere raggiunta soprattutto grazie alla moneta elettronica. Ma una riforma fiscale, al di là della indubbia competenza del ministro, implica scelte politiche e in questo caso tutto sembra indicare che l’indirizzo politico sarà a sostegno delle istanze di Confindustria. Partendo da una cancellazione dell’Irap che pare quasi annunciata dalla decisione di eliminare la quota di giugno anche per chi nella crisi ha solo guadagnato.