Se la guerra ai popoli indigeni del Brasile va avanti da sempre, l’attacco a cui oggi sono esposti è sicuramente il più duro dal ritorno della democrazia. Ossia da quando, nel 1988, la nuova Costituzione ha obbligato lo Stato a consegnare ai popoli originari le loro terre entro cinque anni dalla sua promulgazione.

TRENT’ANNI, e non cinque, sono passati da allora e non c’è stato un solo governo che abbia preso sul serio il dettato costituzionale. Neanche quelli di Lula e di Dilma Rousseff, di cui sarebbe difficile dimenticare le concessioni ai latifondisti e all’agribusiness e la costruzione di opere di impatto devastante sui territori tradizionali, a cominciare dalla contestatissima centrale idroelettrica di Belo Monte.

Ma è sicuramente il governo golpista di Michel Temer quello che più ferocemente sta calpestando i diritti costituzionali dei popoli indigeni, utilizzando come arma principale il Parere vincolante della Advocacia Geral da União (Agu) 001/2017, noto anche come «Parere del genocidio». Un provvedimento centrato sulla tesi del «quadro temporale», secondo cui avrebbero diritto alla loro terra solo gli indigeni (e i quilombolas) in grado di dimostrare la loro presenza nell’area rivendicata al momento della promulgazione della Costituzione, il 5 ottobre del 1988, come cioè se tutto il processo di espulsioni violente e di massacri realizzato prima e durante il regime militare non avesse mai avuto luogo.

UNA TESI SOSTENUTA CON FORZA dalla bancada ruralista (come viene chiamato, al Congresso, il gruppo di potere dei latifondisti e dei grandi imprenditori del settore alimentare e agrochimico), la cui conseguenza è stata non solo la completa paralisi del processo di demarcazione delle aree indigene – all’appello mancano ancora 836 terre in attesa di riconoscimento -, ma anche, per la prima volta dal ritorno della democrazia, l’annullamento di quelle già realizzate. Il tutto accompagnato dall’aumento di attività illegali – dall’estrazione mineraria alla costruzione di centrali idroelettriche fino allo sfruttamento del legname -, dall’invasione di terre già demarcate da parte di non indigeni, dal rovinoso abbandono delle politiche in materia di educazione e salute indigene.

È QUESTO STRAPOTERE «dei ruralisti e degli altri nemici dei popoli indigeni – ha denunciato l’Apib, l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile – a determinare un aumento senza precedenti della violenza contro i nostri popoli e la criminalizzazione dei nostri dirigenti, insieme allo smantellamento delle istituzioni incaricate dalla Costituzione di proteggere e promuovere i diritti indigeni».

UN’IMPORTANTE VITTORIA – la prima dalla pubblicazione del Parere 001/2017 – i popoli indigeni l’hanno però ottenuta il 25 aprile, quando il Tribunale Regionale Federale della Prima Regione ha respinto all’unanimità il ricorso di produttori rurali diretto a impedire la revisione e l’ampliamento dei limiti delle terre indigene Manoki e Menkü, in Mato Grosso, contraddicendo il Parere dell’Agu. È assai improbabile, però, che tale decisione possa scoraggiare i ruralisti, il cui potere incontrastato nel Brasile post-golpe è indicato bene dall’arresto, in Pará, di padre José Amaro Lopes de Sousa, il continuatore dell’opera di Dorothy Stang, la missionaria statunitense assassinata nel 2005 nel municipio di Anapú per il suo impegno in difesa dei contadini e della foresta amazzonica.

RINCHIUSO nella stessa prigione in cui si trova il mandante dell’omicidio di suor Dorothy, il latifondista Regivaldo Pereira Galvão, padre Amaro è stato arrestato sull’unica base delle dichiarazioni dei latifondisti della regione, con accuse che variano dall’associazione a delinquere all’estorsione e dalla violenza sessuale al riciclaggio di denaro. E come un «sovversivo travestito da religioso» lo descrive il presidente dei ruralisti del Pará Carlos Fernandes Xavier, il quale non risparmia neppure la memoria di Dorothy Stang, accusata – insieme al vescovo emerito dello Xingu dom Erwin Kräutler, instancabile difensore dell’Amazzonia e dei diritti dei popoli indigeni – di incitamento alla violenza e persino di traffico di armi.

E NON SI SALVA neppure la Conferenza episcopale brasiliana, definita da Xavier come un «sindacato dei vescovi» dominato da un’ala di sinistra decisa a «introdurre sul suolo cristiano di questo Paese i principi marxisti». Un attacco, quello contro la Chiesa del Pará, che – denuncia la Commissione pastorale della terra – «si inquadra bene in uno scenario in cui sono i ruralisti a dettare ormai la linea della politica brasiliana».