Stasera si parte. Nello stadio Maracana, tutto è pronto per la cerimonia d’apertura dei Giochi olimpici di Rio. Ognuno lucida la sua vetrina. Uno dei più solerti è stato il premier Matteo Renzi, in Brasile da qualche giorno. Due le tappe simboliche più importanti. A Rio ha posato sotto la statua del Cristo redentore, illuminata con il tricolore. Con lui, il cardinale Tempesta (arcivescovo della città carioca), Marco Tronchetti Provera (Amministratore delegato della Pirelli), Giovanni Malagò (presidente del Coni) e Luca di Montezemolo (presidente del Comitato promotore di Roma 2024).

A San Paolo ha incontrato la comunità italo brasiliana: insieme al deputato Fabio Porta, che lo scorso 2 giugno ha lanciato un Comitato per il Sì al referendum costituzionale a Porto Alegre, e con il presidente della Camera di commercio italo-brasiliana, Edoardo Pollastri, che presiede il Comitato per il Sì di San Paolo. Altri 44 presidenti e 55 ministri dello Sport sono attesi per oggi. Per proteggere i 10.000 atleti e il mezzo milione di turisti attesi (il doppio di quelli che hanno partecipato alle Olimpiadi di Londra, nel 2012), sono stati schierati 85.000 militari e polizia, e un gran numero di “addestratori” Usa.

A giugno, uno dei tre ministri del governo a interim di Michel Temer, costretto a dimettersi per corruzione, è stato quello del Turismo: proprio nel momento in cui numerosi esperti internazionali chiedevano di rimandare le Olimpiadi in assenza di sufficienti garanzie per la salute pubblica, nello specifico per il virus del Zika. Ma Temer, pur mancando di credibilità e di legittimità – 15 dei suoi 23 ministri sono indagati per corruzione e lui stesso è stato direttamente coinvolto in uno scandalo dello stesso tenore – cerca di coprire il rumore dei fischi, che di sicuro si leveranno all’apertura dei giochi: «Sono preparatissimo per una fischiatina», ha detto ai giornalisti, mostrandosi ancora al settimo cielo.

Mai, infatti, nonostante lo desiderasse spasmodicamente, avrebbe potuto pensare di essere eletto a capo dello stato: il suo partito (il centrista Pmdb) non ha mai vinto un’elezione, pur essendo sempre stato determinante per le alleanze governative; e ora i sondaggi dicono che oltre il 75% dei cittadini non gradisce il suo gabinetto formato da tutti maschi, bianchi e ricchi, benché la metà della popolazione sia composta da donne, afrodiscendenti e meticci, di ben altra estrazione sociale. Un gabinetto che risponde ai grandi terminali esterni, al latifondo e all’agro-business in un paese che ha il maggior numero di ambientalisti assassinati. La recessione aumenta, il governo è sempre più sommerso dagli scandali, ma Temer ha fretta di svendere risorse e patrimonio pubblico per «attirare gli investitori stranieri» e ritrovare «la fiducia dei mercati».

Il suo impresentabile ministro degli Esteri, coinvolto nello scandalo della Lava Jato, ha dichiarato il Mercosur «una zavorra». Il suo governo, nato da un golpe istituzionale, si è alleato con quello del Paraguay, che lo ha preceduto su quella strada, destituendo con un colpo di mano il presidente di allora, Fernando Lugo. A rafforzare il terzetto, c’è il Berlusconi argentino, Mauricio Macri. Tutti e tre cercano di scippare la presidenza pro-tempore del blocco regionale al Venezuela, a cui spetta di diritto per ordine alfabetico dopo l’Uruguay, che ha passato il testimone. Una nuova «Triplice Alleanza», l’ha definita il presidente venezuelano Nicolas Maduro, che ha ricevuto la solidarietà del suo omologo boliviano Evo Morales, il cui paese è membro associato del Mercosur.

Temer ha organizzato una riunione con Ban Ki-moon, con altri presidenti neoliberisti e con il segretario di Stato Usa, John Kerry, a cui un gruppo di congressisti statunitensi ha chiesto di non riconoscere il suo «governo illegittimo». L’obiettivo è quello di cambiare di segno alle alleanze solidali sud-sud, guidate da Cuba e Venezuela e di volgere intanto il Mercosur verso l’Alleanza del Pacifico, a cui ha chiesto di essere invitata anche l’Europa. Per accreditarsi sullo scacchiere internazionale, Temer vuole chiudere in fretta la partita con Rousseff: prima del 4-5 settembre, quando ci sarà il G20 in Cina, e rimanere a galla fino al 2018, spianando la strada al vero candidato delle destre alle prossime presidenziali. Il più accreditato nei sondaggi per la corsa alla presidenza del 2018 è Lula da Silva, ma contro di lui pende la scure di diversi processi. Intanto, è stato recentemente rinviato a giudizio per «intralcio alle indagini» nell’inchiesta Lava Jato: con l’accusa di aver cercato di comprare un testimone, convincendolo a non deporre. Lui ha sempre negato ogni addebito e si è anche rivolto all’Onu, denunciando la «persecuzione» dei magistrati nei suoi confronti.

L’impeachment a Dilma, intanto, è giunto alle battute finali: sempre segnato da una sfacciata e politica irregolarità. Martedì, il presidente della Commissione sanatoriale, Antonio Anastasia, ha presentato un corposo fascicolo a suo carico e ribadito la «fondatezza» del procedimento. Agli atti non è stato accluso il video, diffuso dai media, in cui si evidenzia il piano ordito dall’ex presidente della Camera Eduardo Cunha (ora dimissionario perché sotto processo) e dallo stesso Temer contro Rousseff. Dilma è stata la prima presidente nella storia del Brasile a fornire ai giudici gli strumenti per perseguire i corrotti, e per questo doveva essere estromessa benché le accuse contro di lei siano inesistenti. La Commissione ha votato a maggioranza per proseguire l’impeachment. Il voto del Senato ci sarà il 9.