Le prime avvisaglie erano arrivate a dicembre, quando durante un incontro nella sede di Confindustria a Roma tra azienda e sindacati, fu stabilito che il periodo di mobilità volontaria per il personale del call center Teleperformance sarebbe durato dal primo gennaio ai primi di aprile. L’incentivo all’esodo venne quantificato in 6000 euro. Il tutto in vista del mese di giugno, quando il 30 sarebbe scaduto l’accordo (non replicabile) sottoscritto nel gennaio del 2013. Quell’intesa infatti, se da un lato prevedeva il ritiro di 621 licenziamenti per la sola sede di Taranto, dall’altro fissava entro il 30 giugno il limite temporale entro cui l’azienda s’impegnava a non aprire altre procedure di mobilità. L’accordo del 2013 prevedeva inoltre la riduzione del costo del lavoro agendo su una serie di voci: livelli, scatti di anzianità, Tfr e tredicesima (oltre all’impegno a non aprire ulteriori procedure di licenziamento sino al giugno del 2015).

Poi, lo scorso gennaio, Cgil e Slc di Taranto lanciarono il primo allarme: «Dall’1 luglio prossimo 2mila dipendenti di Teleperformance rischiano il licenziamento. Le istituzioni si attivino per scongiurare l’ennesima sciagura per il territorio di Taranto». Il sindacato temeva appunto che l’aumento del costo del lavoro del 12% avrebbe spinto l’azienda a dichiarare nuovamente gli esuberi e a mandare a casa 2.000 dipendenti diretti e 1.500 a progetto: in pratica tutta l’azienda. «La crisi di Teleperformance – osservava il segretario generale della Cgil di Taranto Giuseppe Massafra – è aggravata dal nuovo assetto normativo varato dal governo determinato dal Jobs Act e dalla Legge di stabilità. L’azienda potrebbe decidere di spostarsi in un altro Paese».

Un tentativo in realtà già messo a segno nel luglio dello scorso anno, quando Teleperformance tentò di spostare in Albania la commessa di «Eni Back Office». In quelle settimane il direttore di Teleperformance Taranto, Gabriele Piva, affermò che «a un anno e mezzo dall’accordo sottoscritto con i sindacati non si sono verificati i miglioramenti attesi. Registriamo una perdita di 4 milioni ante imposte nonché un aumento di costi. Entro l’estate prossima se la situazione non migliorerà, rischia di essere inevitabile la chiusura». Poi, tra marzo e aprile, in diversi incontri l’azienda ha dichiarato di voler procedere ad un nuovo accordo sindacale, proponendo il passaggio alle 20 ore settimanali (4 ore giornaliere), rifiutato immediatamente dai sindacati.

In questi mesi però, l’azienda ha messo a punto in gran silenzio un progetto al quale non intende rinunciare e che è stato annunciato ai sindacati soltanto lo scorso mese. Ovvero spacchettare la struttura societaria italiana: la sede di Parco Leonardo sarà assorbita in una new.co, mentre i siti di Taranto e Roma (di via di Priscilla) resteranno nell’attuale spa In & Out. Su 3.500 addetti totali sono a rischio i 300 di via di Priscilla e i 2.700 di Taranto, di cui 1.700 con contratto a tempo indeterminato e circa 1.000 a progetto. Lo spacchettamento è stato definito dall’azienda una sorta di societarizzazione, dovuta al fatto che i call center di Taranto e via di Priscilla sono in perdita, 5 milioni quella registrata nel 2014 in Puglia, al contrario di quello di Parco Leonardo.

La multinazionale ha inoltre affermato di aver speso ben 25 milioni di euro dal 2010 a oggi tra copertura delle perdite e aumento di capitale. L’avvio del riassetto societario diverrà effettivo tra 25 giorni. Qualora le cose non dovessero cambiare, la spa In & Out per sopravvivere dovrà cercarsi da sola le commesse ed avviare un’inevitabile ristrutturazione visto che la societarizzazione pensata dall’azienda divide di fatto la struttura in perdita da quella in guadagno. Inoltre, per la spa ‘In & Out’ non è stata esclusa la possibilità di vendita se i conti dovessero peggiorare.

Da ieri e sino a domenica, i sindacati hanno proclamato uno sciopero per le ultime 2 ore di ogni turno. Ieri l’adesione è stata vicina all’85%. Gi. Le.