È una telefonata, per ora solo una telefonata. Ma con eserciti e armi nucleari ammassati lungo il confine ribollente dell’Ucraina, anche una telefonata può allungare la vita – quella di tutti, non solo degli ucraini. Il presidente americano Joe Biden e quello russo Vladimir Putin hanno riattivato il «telefono rosso» (espressione che non si usava dalla guerra fredda, nata con la crisi dei missili a Cuba) e ieri sera si sono sentiti per la seconda volta in tre settimane – negli auguri di Natale Putin ha persino scritto a Biden che «un dialogo efficace è possibile».

L’argomento è stato l’Ucraina, il più grande boccone di quella che era l’Europa sovietica, teatro di un conflitto tra i centomila soldati russi che l’intelligence dell’Occidente dice schierati giusto oltre il confine, e le millanta basi e missili che da ogni angolo d’Europa marciano inesorabilmente verso est.

E l’interpretazione della chiamata, con tutte le incertezze del caso, è un’altra espressione da guerra fredda: il disgelo. Da settimane, russi e americani (altra espressione da guerra fredda) sono impegnati in un’escalation di messaggi, in cui un senatore americano suggerisce che gli Usa «non escludono l’attacco nucleare di primo uso» e un ministro russo sostiene che «se l’Ucraina entra nella Nato sarà guerra», in cui il bellicoso leader della Nato Stoltenberg raduna i vecchi amici dicendo che «solo i paesi della Nato decidono chi entrerà nella Nato» e il non meno bellicoso ministro degli esteri Lavrov lancia nuove amicizie e dice di appoggiare la Cina su Taiwan…

Il tutto con una guerra più o meno conclusa (l’annessione russa della Crimea ucraina) e una guerra aperta nel Donbass parimenti ucraino, dove «patrioti russi» o «terroristi», secondo punto di vista, sono ancora in armi. Dal 2014. Se non sono già disgelo, le telefonate certo lo sembrano.

La chiamata di ieri è stata chiesta da Putin ma Biden vi si è subito aggrappato, dopo un intenso lavoro preparatorio del suo segretario di stato Anthony Blinken. Lavoro che comprende consultazioni con Gran Bretagna, Francia e Germania (Putin ieri ha invece invitato Draghi a Mosca, complimentandosi con «l’efficace presidenza italiana del G20») ma soprattutto un incontro Usa-Russia il 10 gennaio all’Onu a Ginevra, con i vice di Blinken e Lavrov, cioè nomi di buon profilo.

E poi un incontro in sede Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) il 12 e 13 gennaio e un incontro Russia-Nato.

Molta strada sembra stata fatta dal marzo scorso quando Biden, presidente da tre mesi, alzò con violenza la temperatura e disse il tv che Putin era «un killer», una (blanda) riedizione di quell’«impero del male» con cui Reagan bollò l’Urss di Andropov e mandò a catafascio anni di distensione – Reagan parlava all’Associazione delle chiese evangeliche, «le Scritture e il Signore Gesù ci comandano di combattere il male» eccetera, finì con una mostruosa corsa agli armamenti. Altri tre o quattro mesi e Putin diventava effettivamente il killer della democrazia come la conosciamo: presidente a vita grazie a una modifica costituzionale.

A metà dicembre, Putin ha recapitato a Biden il pacchetto di richieste russe, quella forse centrale è che Mosca vuole «assicurazioni vincolanti» che l’Ucraina non entrerà nella Nato, ennesimo missile atlantico puntato sulla Russia – come hanno già fatto Polonia, Romania, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Bulgaria, Lettonia, Lituania e Slovacchia: a parte l’Ucraina, manca solo la Bielorussia del despota Lukashenko e poi la Nato sarà ai confini russi.

Ora, quel vincolanti (binding) è un termine che gli Stati uniti detestano. Le istanze internazionali sono una via crucis di risoluzioni «non-binding», dal clima all’uso di robot assassini, che gli Usa firmano e poi evadono con tranquillità. Dalla Ue solo parole a rimorchio («siamo con l’Ucraina») e attenzione a non disturbare. Ma la politica estera europea la fa la Nato, e non da oggi.