Stavolta la comunicazione telefonica saltata il giorno precedente tra Roma e Kiev, tra il premier italiano e quello ucraino assediato, fila alla perfezione. Non solo perché le bombe non impediscono a Zelensky di mettersi in comunicazione ma soprattutto perché da Draghi si sente dire quel che voleva: che l’Italia non si oppone all’esclusione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift. È lo stesso Zelensky ad annunciarlo: «Draghi ha sostenuto l’estromissione della Russia dal Swift. È l’inizio di una nuova pagina. L’Ucraina deve far parte della Ue». Poco dopo palazzo Chigi conferma: «Draghi ha ribadito che l’Italia appoggia e appoggerà in pieno la linea Ue sulle sanzioni, incluse quelle Swift».

È un passo fatto a malincuore. Meno di 12 ore prima il ministro dell’Economia Franco era scettico: «Se escludiamo la Russia dal Swift, pagare il gas diventa un problema». La mossa è pericolosa per diversi motivi, l’intero flusso dei pagamenti rischia di andare in tilt con effetti disastrosi sulle banche, in particolare quelle più esposte con la Russia come le italiane. Per questo i principali Paesi europei avevano frenato sulla proposta avanzata dai paesi baltici e dalla Polonia, quelli che più si sentono minacciati da Putin, e rilanciata con determinazione da Zelensky.

Nel corso di una giornata da incubo, venerdì, Draghi si è reso conto di non poter resistere: accusato dai paesi europei più rigidi di eccessiva arrendevolezza, indicato apertamente da Tusk come uno dei responsabile delle «sanzioni troppo deboli», pressato da Washington. Zelensky ha sfruttato in modo magistrale la situazione. Impossibile dire no a chi si trova sotto le bombe e ti accusa di abbandonarlo. L’incidente della telefonata mancata e del tweet amaro e ironico con cui l’ucraino aveva commentato le parole con cui Draghi lo aveva raccontato in Parlamento serviva a forzare la mano al governo italiano.

Resta un margine aperto nella linea di Roma, implicito nell’annuncio di palazzo Chigi. L’Italia non «sostiene» l’estromissione della Russia dal Swift: assicura che appoggerà qualsiasi decisione della Ue in questo senso. Anche se palazzo Chigi e il Mef lo negherebbero sino alla fine, è probabile che entrambi sperino nel peso della Germania che si è pronunciata a favore di una esclusione «mirata e funzionale».

In Italia il primo a esultare per la svolta del premier è Letta, il più dubbioso è Salvini. Dietro la facciata unitaria, che dovrebbe portare a una risoluzione comune maggioranza-opposizione al termine del dibattito in Parlamento di martedì, c’è qualcosa in più di una crepa: una divisione che, quando la situazione diventerà più aspra, si allargherà probabilmente sino a diventare lacerante. Letta festeggia la svolta di Draghi: «Bene, molto bene». Segue in coro l’intera nomenklatura del Nazareno, impegnato a imporsi come il partito più determinato e pronto a pagare qualsiasi prezzo perché, come ha detto il segretario in aula venerdì, «Putin non deve vincere questa guerra». Salvini, per una volta, è più vicino del Pd alle preoccupazioni della Germania: «Bisogna valutare tutto perché se impedisci i pagamenti tra le banche non abbiamo più il gas. Comunque deciderà Draghi». Alla responsabile esteri del Pd Quartapelle basta e avanza per attaccare: «Ancora fa calcoli economici sul prezzo per la libertà di un popolo. Faccia una scelta di campo definitiva».

C’è un bel po’ di propaganda a uso interno nelle due posizioni. Ma c’è anche una divaricazione più profonda: la linea appoggiata dal Pd, e maggioritaria in Europa, toglie alla sfida ogni residuo margine di mediazione. Mette sul tavolo la cacciata di Putin come prezzo che la Russia deve pagare.