I sintomi e le premonizioni abbondavano. Da tempo si era segnalato – anche sul manifesto – che la vicenda Telecom sarebbe deflagrata. Era stato anche detto a chiare lettere che il d-day cadeva nel mese di settembre, con lo scioglimento del patto della cassaforte Telco, il riferimento proprietario dell’azienda. E così il bubbone è scoppiato, con l’acquisto della maggioranza delle azioni della scatola di comando da parte della spagnola Telefonica, già presente ma con una partecipazione assai inferiore. È bene ricordare che Telecom naviga in acque indebitatissime, come pure la cugina ispanica. Due pugili ammaccati si abbracciano sul ring con una cerimonia molto meno luminosa delle immaginifiche sorti della società dell’informazione.
Ora gli esegeti delle varie agende digitali tacciano almeno per un po’ e si ritirino a riflettere su quanto è successo. Sì, perché la devastante spoliazione dell’ex principale impresa delle telecomunicazioni italiane costituisce una rottura “epistemologica”. Per capirci, l’Italia esce dalla serie A e chissà se mai vi farà ancora capolino. Nel paese, che insieme alla Svezia conta la maggiore presenza percentuale (sulla popolazione) di telefoni e smartphone, l’industria italiana lascia definitivamente il palcoscenico. Eppure, avevamo la luna, dal titolo di un bel volume di Michele Mezza: dalla Olivetti alla vecchia – difetti a parte – Sip, dove c’era l’avanguardia dell’epoca precedente, quella analogica ed elettromeccanica.

Che è successo? Il presidente di Telecom sostiene di non averne saputo nulla, ed è probabile, visto il logoramento cui è stato sottoposto negli ultimi mesi il titolo. In genere, quando viene preparato l’assalto alla diligenza l’ostilità aumenta: scendono d’ufficio i prezzi dell’interconnessione, l’infinito dibattito sullo scorporo della rete si blocca o langue sotto il cielo della cattiva politica. La questione di Telecom si intreccia con quelle di Alitalia e di tante altre. Nella divisione internazionale del lavoro l’Italia ricopre ormai un ruolo marginale. Quindi, non stupisce neppure che qualche esponente del governo pure non ne sapesse nulla. Guarda un po’ dove sta il potere vero. Neppure ha fatto una gran figura il presidente del consiglio Enrico Letta, rinviando da New York alle autonome prerogative del capitale privato (?!). E solo ora ci si rende conto della mancanza di un regolamento attuativo della golden share (sarà un caso?), mentre pateticamente qualcuno si attacca alla zattera della sicurezza nazionale per non perdere la rete.

Ecco, la rete, l’infrastruttura sensibile, il tessuto nervoso delle comunicazioni, ancor più nell’età cross-mediale. Perché non si è scelta per tempo la separazione del principale tesoro del settore, vero e proprio bene comune? E l’annunciato ingresso della Cassa depositi e prestiti? In verità, tanti anni fa, quando nel 1996 iniziò la discussione sulla privatizzazione, si propose di mantenere in mano pubblica la parte strutturale e di lasciare alla competizione di mercato solo i servizi. Forse Romano Prodi ci pensò sul serio e certo chi di noi lo propose non ebbe il coraggio di suscitare un vero confronto esplicito e strategico. Sull’onda dell’urgenza dell’Europa e dell’euro prevalse la linea sbagliata e asfittica di privatizzare tutto, con un “nocciolo duro” che fu l’epifania dell’inconsistenza del capitalismo italiano, capace solo di alzare la voce con i deboli, ma privo di una visione. Il “nocciolo duro”, che avrebbe dovuto animare il processo, fu una raccolta di elemosine. La sbandierata digital era rimase un oggetto convegnistico, mentre il capitalismo reale preferiva la ghiotta strada della finanza e della speculazione. Prima del botto dei derivati e della grande crisi recessiva. Ecco. Chi oggi parla e sparla di Telecom dove stava allora? Si rimuovono i cori da stadio che accompagnarono la privatizzazione o il curioso passaggio (capitalisticamente parlando, quanto meno) dei “capitani coraggiosi”? O i silenzi colposi e dolosi degli ultimi tempi? Mai tragedia fu più annunciata e ora le lacrime di coccodrillo si sprecano. L’effetto prevedibile è la perdita di migliaia di posti di lavoro. Molte migliaia, se è vero che Telefonica vorrà innanzitutto sbarazzarsi delle attività sudamericane, quelle che al momento fanno cassa.

Se non vi sarà un immediato intervento pubblico per mettere al riparo la rete, il disastro diventerà uno tsunami. Ritorno dello stato nel settore? Certo: un passo indietro per farne due avanti.