Dando un segnale preciso della piega sempre più pericolosa che ha preso la crisi tra l’Iran e gli Usa, il re dell’Arabia Saudita Salman ha accettato di ospitare forze armate statunitensi nel paese per la prima volta dal 2003. Il passo, spiegato come un tentativo «per rafforzare la sicurezza e la stabilità regionali», avviene nelle ore in cui la “guerra delle petroliere” tra Londra e Tehran si fa più intensa. L’Iran ha annunciato ieri di aver aperto un’inchiesta sulla nave cisterna britannica “Stena Impero”, sequestrata dai Guardiani della Rivoluzione venerdì nello Stretto di Hormuz. Il comandante della petroliera è accusato di aver urtato una barca da pesca iraniana. L’annuncio ha generato il «disappunto» del ministro degli esteri britannico Jeremy Hunt che afferma di aver ricevuto in precedenza dal suo omologo iraniano Javad Zarif assicurazioni sul rilascio in tempi stretti della “Stena Impero”.

Il braccio di ferro è cominciato in seguito al sequestro il 4 luglio da parte della Marina britannica nello Stretto di Gibilterra della petroliera iraniana “Grace 1”. Ufficialmente perché sospettata di trasportare petrolio in Siria in violazione delle sanzioni contro Damasco. In realtà Londra ha voluto compiacere l’alleato Donald Trump che, uscito un anno fa dall’accordo internazionale sul programma nucleare iraniano (Jcpoa), ha approvato una raffica di pesanti sanzioni contro l’Iran e le sue esportazioni di greggio provocando le rappresaglie di Tehran.

La decisione di re Salman, alleato di ferro di Washington, di accogliere di nuovo in Arabia saudita truppe statunitensi è molto significativa. Per i Saud e il clero wahhabita che domina su ogni aspetto della vita religiosa del paese, il suolo saudita è sacro e inviolabile perché vi hanno avuto inizio l’Islam e la predicazione di Maometto e perché ospita le città sante di Mecca e Medina. Riyadh ha accettato l’ingresso nel paese di soldati non musulmani per le guerre del 1991 e del 2003 scatenate dagli Usa (e paesi alleati) contro l’Iraq. Questo nuovo via libera perciò segnala come i regnanti Saud siano ormai convinti che, presto o tardi, Trump alla guida di una coalizione di “volenterosi” lancerà un attacco militare all’Iran. Così come il regime saudita e i suoi alleati più stretti, Emirati e Bahrain, sperano da tempo. Nei giorni scorsi la Cnn aveva anticipato che gli Stati Uniti invieranno circa 500 militari nella base aerea di Prince Sultan, a est di Riyadh. Il dispiegamento fa parte dell’aumento di 1000 soldati statunitensi in Medio Oriente che il Pentagono aveva annunciato il mese scorso.

Nel frattempo la “Steno Impero” resta all’ancora al largo del porto di Bandar Abbas con tutto il suo equipaggio a bordo. «Un’inchiesta sulla causa dell’incidente (tra la petroliera britannica e il peschereccio, ndr) è stata avviata da esperti nella sede della provincia di Hormozgan», ha comunicato Allah-Morad Afifipoor, direttore generale del porto di Hormozgan. Dal Venezuela dove è in visita, il ministro Javad Zarif ha spiegato che «a differenza della pirateria avvenuta davanti a Gibilterra, la nostra azione nel Golfo è volta a far rispettare il diritto del mare internazionale». E ha esortato il governo britannico «a smettere di essere uno strumento del terrorismo economico degli Stati Uniti». Gli sviluppi sono imprevedibili. Tehran, che ha già annunciato un lieve aumento della percentuale di arricchimento dell’uranio nelle sue centrali atomiche, avverte che uscirà dal Jcpoa se l’Europa non approverà misure volte ad aggirare le sanzioni americane. E attraverso i blitz nello Stretto di Hormuz dei Guardiani della Rivoluzione comincia a mettere in pratica ciò che ha minacciato nei mesi scorsi: «se l’Iran non potrà esportare petrolio, allora nessuno potrà farlo».

Schiacciata tra l’intenzione di tenere in vita il Jcpoa e la sudditanza nei confronti dell’alleato americano, l’Europa continua a non decidere politiche concrete contro le sanzioni ingiustificate di Donald Trump. La Francia ha invitato le autorità iraniane a «rilasciare al più presto» la petroliera britannica sequestrata. Stessa richiesta è giunta anche da Berlino. L’Ue nel suo insieme sottolinea che «questo sviluppo mette a rischio il lavoro per trovare il modo di risolvere le tensioni».