Siamo in Iran, dove tra il 1940 e il 1941, lo shah Reza Pahlavi è costretto ad abdicare in favore del figlio Mohammad Reza – l’ultimo prima della Rivoluzione khomeinista – dopo l’occupazione militare da parte di Regno Unito e Urss. I profughi di cui parliamo – circa 120 mila – sono polacchi e nel 1942, in fuga dal secondo conflitto mondiale, approdano in una sorta di terra promessa, lontani dai gulag sovietici. La Polonia non è più la loro patria da quando, nel ‘39, l’accordo tra i ministri degli esteri sovietico e tedesco Molotov e Ribbentrop stabilisce le rispettive sfere di influenza sul territorio: a ovest la Germania nazista, a est l’Urss di Stalin.

AL DI LÀ DEGLI EVENTI bellici più conosciuti, la storia ha restituito una pagina di accoglienza ancora poco letta. La racconta in un corposo romanzo Mostafa Ensafi, ingegnere civile di Tehran, che da poche settimane è uscito in Italia con Ritornerai a Isfahan (Ponte33, pp. 304, euro 16, traduzione di Giacomo Longhi). Con l’abilità di uno scrittore navigato – in realtà è all’esordio, ma ha appena pubblicato in Iran il suo secondo romanzo – e una coscienza critica che si traduce in un’analisi della società concreta e disillusa – pur avendo solo 31 anni – Ensafi apre uno squarcio nel passato del proprio paese alternando realtà e finzione. I suoi personaggi lo aiutano a raccontare l’arrivo dei polacchi in Iran, il difficile periodo di adattamento fino all’integrazione.

UNA NARRAZIONE tutt’altro che piana: sono tre le linee temporali lungo le quali si sviluppa la storia. La prima, quella del passato remoto, quando alcuni dei personaggi raggiungono Isfahan; la seconda, il passato prossimo, quando Barbara e Adri – rispettivamente madre e figlia – conoscono Shamim, terzo protagonista. L’ultima, quella dell’impietoso presente che chiede il conto delle due precedenti: la figlia ventenne di Adri, Eliza, arriva dalla Polonia per scoprire il passato iraniano di sua madre. E per farlo chiedere aiuto a Shamim, ormai professore universitario pigro e rassegnato che si muove in una città sospettosa, assediata dai militari – come lo era l’intero paese nel 2009 alla vigilia della contestata rielezione del presidente Ahmadinejad.
Ritornerai a Isfahan è sicuramente un romanzo storico e politico: i temi della responsabilità sociale, dell’accoglienza e dell’ottusità governativa si manifestano prepotentemente pur senza togliere spazio all’intensa storia d’amore, poi diventata giallo, che fa da catalizzatore dell’intera narrazione.

ENSAFI, reduce dal tour italiano di presentazione del libro – da Venezia per Incroci di civiltà, fino a Lecce, passando per Milano, dove è stato ospite della libreria Gogol & co. – ha raccontato il processo di costruzione dei suoi personaggi: «Quando ho cominciato a scrivere non sapevo con chi avevo a che fare. Ci siamo conosciuti a vicenda riga dopo riga. Mi hanno aiutato loro a capire chi fossero davvero. E se Barbara, Andri, Shamim ed Eliza sono così credibili, è anche merito loro». Inevitabile – visti i messaggi politici di cui è intriso il romanzo – chiedergli quale sia oggi in Iran il rapporto tra potere e cultura: «Sono due ambiti diversi che raramente devono incontrarsi. Il potere non deve occuparsi di cultura, ma la cultura deve occuparsi di potere. Non vuol dire che ogni scrittore debba farlo, ma se sceglie quella strada deve sfoderare tutto il suo coraggio», ha spiegato Ensafi che non ha risparmiato nemmeno una critica al mondo editoriale iraniano.
«Tutti mi chiedono perché molti coetanei siano laureati e lavorino da ingegneri o avvocati o medici (Nasim Marashi, Mehdi Asadzadeh, ndr), ma si dedichino alla letteratura quasi a tempo pieno. Semplice: in Iran c’è una proposta letteraria enorme e in questa bulimia di offerta, vivere di scrittura è impossibile».
Un po’ come accade in Italia a certi giovani scrittori di talento. «Certo – ha precisato Ensafi – non tutti sono riusciti a far tradurre i propri romanzi in altre lingue e questo è per me motivo di orgoglio».