Venezuela e Russia – il primo membro dell’Opec, il secondo il più grande dei non Opec – lavorano a tambur battente per limitare la produzione di petrolio che, nell’anno in corso, dovrebbe superare la domanda di 1,75 milioni di barili al giorno. Una situazione che ha portato a una caduta verticale del prezzo del barile, sceso sotto i 30 dollari. L’altroieri era stato annunciato un accordo a quattro che interessava anche l’Arabia saudita (uno dei principali produttori) e il Qatar. Il prezzo del barile era risalito a 31 dollari, per poi ricadere, però, intorno ai 29 a causa delle resistenze di altri importanti produttori come Iran e Iraq in un contesto che intreccia interessi economici e conflitti geopolitici: di cui è fulcro l’Arabia saudita, alleata degli Stati uniti, che hanno inondato il mercato di petrolio di scisto ottenuto con la tecnica del fracking. Il Venezuela, che custodisce le più grandi riserve di petrolio al mondo, trae oltre il 70% degli introiti dalla rendita petrolifera, grazie alla quale ha potuto destinare più del 60% delle entrate alle misure sociali. Dal 2015, Caracas cerca di costruire una strategia per stabilizzare il mercato del crudo, sostenuta in questo dall’Ecuador, che però ha il ruolo minore nell’Opep.
Il ministro del Petrolio venezuelano, Eulogio del Pino, ieri si è recato a Tehran (con cui Caracas ha ottime relazioni) e ha ottenuto il sostegno dell’Iran, che si è detto pronto a congelare la produzione di petrolio. Ieri, il Venezuela ha anche riproposto all’Onu la questione dell’Esequibo, a 50 anni dalla firma dell’accordo di Ginevra sul contenzioso con la Guyana per la disputa sulla acque contese: un territorio di 160.000 km quadrati in cui sta già operando la compagnia petrolifera Exxon Mobil, apripista di Washington, una di quelle che non ha accettato le nuove offerte commerciali del Venezuela chavista impostate all’insegna dell’indipendenza dalle multinazionali. Il presidente della Guyana, il conservatore David Granger, uomo delle multinazionali, ha cercato l’appoggio della Comunidad del Caribe (Caricom) nel vertice semestrale dell’organismo regionale che si è concluso ieri. Poi si è recato all’Onu per riunirsi con Ban Ki-moon.

Intanto, per far fronte alla grave situazione economica del paese, il presidente Nicolas Maduro ieri ha tenuto un discorso alla nazione, presentando i «14 motori» per una nuova economia produttiva, decisi per decreto e approvati dal Tribunal Supremo de Justicia nonostante la bocciatura del parlamento governato dalle destre. Per contrastare il sabotaggio delle grandi imprese private, decise a farla finita con l’ex operaio del metro e con il socialismo bolivariano, Maduro fa appello ai «soviet bolivariani», alle assemblee popolari, al parlamento comunale e alle comunas. Al contempo, però, cerca alleati tra gli imprenditori non speculativi per costruire quella che, con riferimento alle scelte di Lenin nella rivoluzione bolscevica, viene definita la Nep, la nuova politica economica di riforme, in parte orientate al mercato e al privato.

E così, seppur per «ragioni famigliari» del ministro, Maduro ha sostituito Luis Salas – vicepresidente per l’area economica e incaricato del ministero di Economia produttiva, nominato il 6 gennaio – con Pérez Abad, capo di Fedeindustria e ministro di Industria e Commercio: «un uomo che conosce gli imprenditori e l’importanza del settore privato», ha detto Maduro. Un segnale di «buona volontà», ha risposto Fedecamaras, la Confindustria locale. «Contro il Venezuela c’è un blocco finanziario internazionale, non ci rifinanziano il debito e impongono condizioni capestro per prestarci i soldi», ha detto Maduro. E intanto, le destre hanno approvato una legge d’amnistia: in favore di golpisti e banchieri fraudolenti fuggiti a Miami.