Una sera, uscendo da un teatro di New York dopo l’applauditissimo spettacolo Grief Is The Thing With Feathers, due donne fermano Teho Teardo, l’autore della musica in scena, per chiedergli un autografo su una piuma di corvo con un pennarello argentato. Una piuma vera. Nera, grande, che portano in borsa. Non è facile scrivere su una piuma di uccello per strada, mentre comincia a piovere, nemmeno se sei uno dei musicisti più avventurosi in circolazione. Dopo l’autografo una delle due porge a Teardo una scatola con un corvo. Un corvo vero, enorme, preso e imbalsamato nel New Jersey. E poi se ne vanno nella notte, lasciando solo l’artista e la sua musica, e il suo stupore. «Non credo che la musica possa aiutare a superare il dolore. Se penso ai dolori che ho incontrato finora, mi pare che siano scemati un po’ alla volta, qualcuno continua a ripresentarsi, certe volte all’improvviso e così forte da farti dimenticare del mondo», mi racconta il musicista preparandomi un the nel suo studio dietro piazza Vittorio a Roma, «sicuramente la musica aiuta a vivere meglio, ma non è una terapia al dolore. Non credo nemmeno alla musicoterapia», chiosa lui.
Grief Is The Thing With Feathers è anche il nuovo disco di Teardo, appena uscito, ma nasce prima come romanzo dell’inquieto scrittore britannico Max Porter, che l’altrettanto irrequieto musicista friulano, ma romano d’adozione, legge e immagina immediatamente come partitura musicale. A metterci lo zampino, o forse la zampetta, è il regista teatrale irlandese Edna Walsh, già noto, tra i tanti progetti, per aver scritto con Bowie lo spettacolo Lazarus, che da anni collabora con Teardo. Gli confida il desiderio di mettere in scena uno spettacolo ispirato proprio a questo curioso e indomito romanzo, che il musicista immagina immediatamente come partitura di chitarre, elettronica, archi, synth e oggetti vari. Quella musica, ha raccontato lo stesso Porter: «Teho l’ha sempre sentita. Dovevamo solo incontrarci».

IL LIBRO, ma anche il disco, è la storia del viaggio nel dolore di un uomo che ha perso la moglie, rimasto solo con due figli. E di un corvo che si prende cura di loro: la musica (ma anche la lettura) scava a fondo nelle viscere di questo corpo immutabile, nell’occhio vitreo del Corvo gigante, e chiede all’ascoltatore (e al lettore) di lasciarsi andare al lento movimento creato dai violini, viole e violoncelli, da fischi lontani, da frasi sussurrate che si riescono a malapena a percepire, da rumorini impercettibili, da stridori lontani.

IL CORVO non se ne andrà finché non staranno tutti meglio, e così la musica di Teardo, che evoca la moglie scomparsa. La magia di questo piccolo gigante sonico sta proprio nell’inconsueto: una chitarra non è mai una chitarra, come siamo abituati e annoiati a pensarla, e i clarinetti sembrano arrivare direttamente dalle viscere del pennuto. Tanto che, se pur a servizio dello spettacolo, portato con straordinario successo «sold out» prima al Barbican di Londra e poi al St. Ann’s Warehouse di New York, l’album vive di vita propria e ha la potenza di un racconto senza le parole.

LA MUSICA di Teardo è una specie di «membrana» che permette di attraversare il tempo, per restituire il passato perduto. O che, semplicemente, se n’è andato. «È un passaggio aperto. Nessuna restituzione del passato, non è un tragitto temporale ma un altro punto di osservazione, uno spostamento», racconta lui con gli occhi vispi seduto su uno sgabello-trespolo nel suo studio pieno di strumenti di ogni tipo e colore, «nella musica cerco quella possibilità di andare oltre, di trascendere. Lo si potrebbe raccontare in pittura nel passaggio che c’è tra terra e cielo nei dipinti di Turner. Nella musica pop quella transizione è spesso identificata con il termine psichedelia, che continua a essere utilizzato per pigrizia. Un termine che mi annoia a morte per i limiti che ha. Non si direbbe mai che il lavoro di Turner sia psichedelico. È un rapimento, è l’estasi…».
Finiamo il the, spegne il computer su cui sta componendo la colonna sonora di un nuovo film, si aggira per lo studio senza scarpe e coi calzini colorati come se fosse un ballerino: «Mi piace ballare. Quando suono, soprattutto su un palco, mi rendo conto che sto danzando. Pur non sapendolo fare entro in un’onda che permane fino a quando c’è musica. A Pordenone, quando avevo diciassette anni, vidi dal vivo James Brown. Non credo di aver mai assistito a nulla del genere. Il suo corpo era il ballo, e conteneva anche la musica». Si illumina, Teardo, quando parla della musica anche se di parole, la sua, ne ha poche.

LE PIÙ BELLE gliele ha scritte Blixa Bargeld, il geniale poeta dada-rumorista berlinese, leader degli Einstürzende Neubauten, con cui Teho ha composto svariati album uno più bello dell’altro e con cui continua a sperimentare: «Canto di nascosto, al buio, a microfono spento. Ma nella vita certi dolori ti possono portare via molta della voce che hai. Così se voglio una bella voce nella mia musica mi rivolgo a chi lo sa fare bene. Non a caso lavoro con Blixa». Che, qualche giorno fa, armeggiava con un contatore Geiger in questo stesso studio: «Abbiamo registrato alcune molecole di gas. Noi lavoriamo sempre, non smettiamo mai…», ridacchia Teho.
Chiude lo studio e ci avviamo a piedi verso il Colosseo. In cortile ci sono corvi di plastica a fare da guardia: «Sono bestie che ritornano spesso nei miei lavori, ma qualche settimana fa ad un gabbiano in volo è sfuggito il ratto che teneva col becco e l’ho visto cadere a pochi passi da me. Una macabra cartolina da Roma 2019», sogghigna. Poi scompare nella notte, evanescente e umorale come un animale selvatico alla ricerca di nuovi suoni di cui cibarsi, prima che questi diventino rumore.