L’Ayatollah Ali Khamenei ha fatto passare qualche giorno prima di rispondere al presidente statunitense Trump, l’uomo che minaccia di far collassare uno dei pochi veri risultati dell’amministrazione Obama in politica estera: il riavvicinamento all’Iran.

Usa l’ironia il leader supremo: «Siamo grati a questo gentiluomo. Ha mostrato il vero volto dell’America. Quello che abbiamo detto per più di 30 anni, che esiste una corruzione politica, economica, morale e sociale nel sistema di governo degli Stati uniti, è stato portato alla luce durante e dopo le elezioni da questo gentiluomo».

In poche parole la guida spirituale e politica iraniana condensa decenni di contrasti e guerra fredda: la narrativa del grande Satana, l’odiosa memoria del sostegno Usa allo scià, la crisi degli ostaggi, decenni di embargo e sanzioni a cui Teheran è sopravvissuta e da cui ha saputo ritagliarsi un ruolo di leader politico ed economico in Medio Oriente, anche a suon di sostegno militare, da Damasco a Gaza.

Ancora più ironico che la paventata rottura tra Trump e Teheran arrivi a pochi giorni dal 10 febbraio, anniversario della rivoluzione khomeinista del 1979. L’Ayatollah rimanda alla base: a rispondere alle sanzioni nuove di zecca che raffreddano il tavolo del disgelo (12 individui e 13 enti, alcuni legati ai pasdaran) e al Muslim Ban che vuole tenere fuori i cittadini iraniani, sarà il popolo celebrando la rivoluzione islamica. «Nessun nemico può paralizzare la nazione iraniana – ha aggiunto – Il popolo risponderà il 10 febbraio».

Il discorso di Khamenei ha un significato profondo: è la prima volta che si rivolge direttamente a Trump e lo fa mentre il presidente iraniano, il moderato Rouhani – architetto (insieme a Rafsanjani, scomparso poche settimane fa) dell’accordo sul nucleare con il 5+1 e timoroso che una nuova ondata isolazionista possa facilitare i conservatori alle prossime elezioni – insiste nel definire quell’intesa «un risultato vantaggioso per tutti, modello di dialogo per la sicurezza e la stabilità della regione». Lo stesso accordo che Trump ha bollato come «il peggiore della storia».

Nelle stanze dei bottoni di Teheran un po’ di paura serpeggia: se Trump dovesse davvero stracciare l’accordo, non potrebbe trovare sponde disponibili.

A preoccupare è il peso di Israele sulla bilancia: il premier Netanyahu incontrerà Trump il 15 febbraio, meeting anticipato da giorni di brutale offensiva espansionistica contro i Territori Palestinesi Occupati, e di certo la “minaccia” iraniana prenderà buona parte della conversazione.

Dall’altra parte, a contrastare la diplomazia di aggressione via tweet di Trump, c’è la Russia che con l’Iran tiene in piedi il fronte pro-Assad: con russi e turchi, gli iraniani sono mediatori della crisi siriana e sponsor della conferenza di Astana, in una fase di guerra a bassa intensità e palese esclusione di Washington dal negoziato.

Impossibile non passare per la Repubblica Islamica, che finanzia Damasco. Indicativo in tal senso lo stringato commento del vice ministro degli Esteri russo Ryabkov: «Non cercate di aggiustare qualcosa che non è rotto».

Per la capitale iraniana vuole passare anche l’Europa, che uscirebbe indebolita da un’implosione dell’intesa: decine di grandi imprese francesi, italiane, tedesche, britanniche stanno già lavorando alacremente a progetti di investimento in un paese dalle enormi ricchezze energetiche e da un consistente potenziale commerciale prodotto dall’apertura.

Per questo fonti vicine all’amministrazione Trump sottostimano le dichiarazioni acchiappa-like del presidente: nessuna intenzione di stracciare l’accordo, al massimo rivedrebbe alcuni requisiti (maggiore spazio d’azione a favore dell’agenzia Onu per l’energia atomica e apertura dei siti militari al monitoraggio).

A frenare è anche il pericolo per gli Stati uniti di un neo protagonismo cinese nell’area, in vista della nuova via della seta che, inevitabilmente, attraverserà anche l’antica Persia.