Bloccando internet, le autorità di Teheran prendono due piccioni con una fava: complicano l’organizzazione delle proteste e impediscono ai manifestanti di mandare i video all’estero. Se la situazione si è calmata, è proprio per il taglio delle comunicazioni con la telefonia fissa e mobile e con internet.

I primi disagi si sono registrati venerdì, dall’ora di pranzo, nella città nordorientale di Mashhad. Dopodiché internet ha smesso di funzionare nella capitale e a Shiraz. Man mano che le proteste si diffondevano, alle 14.30 di sabato tutti i maggiori operatori mobili – Mci, Rightel e Irancell – hanno perso la connessione.

Secondo l’organizzazione non governativa NetBlocks che si occupa di monitoraggio e governance della rete, un blocco simile non si è mai stato registrato, né in Iran né altrove.

Gli ayatollah hanno anche offuscato le trasmissioni in persiano dell’emittente britannica Bbc, che da sempre gli iraniani ascoltano per avere informazioni imparziali sul proprio paese. Ieri sera erano ancora isolati dal resto del mondo.

Di pari passo, i pasdaran hanno minacciato una risposta dura contro i responsabili dei disordini. Per fare fronte al dissenso, dovuto a decenni di sanzioni occidentali e a promesse mai mantenute dalla leadership, queste misure repressive non sono però sufficienti.

Le proteste sono state scatenate dalla diminuzione dei sussidi alla benzina. Fino a venerdì scorso gli automobilisti potevano acquistare un massimo di 250 litri di benzina al mese al prezzo di soli 11 centesimi di euro al litro, la cifra più bassa del pianeta che non copre i costi di estrazione e raffinazione: per gli iraniani è un diritto acquisito, motivato dalle immense ricchezze energetiche del loro paese.

Da venerdì possono però acquistare solo 60 litri al mese a testa, dopodiché il prezzo raddoppia a 22 centesimi: a risentire degli aumenti saranno i tanti che si guadagnano il pane lavorando come tassisti abusivi, usando applicazioni come Tap30 e Snapp.

Per far fronte al dissenso, sabato il deputato conservatore Mojtaba Zonnour ha proposto di ripristinare i sussidi alla benzina, ma è poi intervenuto il leader supremo Ali Khamenei: «La misura è stata presa dopo aver sentito gli esperti». Per calmare gli animi, in anticipo di una decina di giorni rispetto al previsto, già dalla notte scorsa il governo di Teheran ha versato a un quarto della popolazione i primi sussidi derivanti dalle nuove entrate per i contestati rincari sulla benzina.

Entro sabato, i pagamenti riguarderanno tre iraniani su quattro, ovvero le famiglie bisognose. È la risposta alle proteste che secondo fonti ufficiali hanno fatto 12 morti, secondo gli attivisti almeno 40, oltre a centinaia di arresti e a danni non irrilevanti in diverse città.

Di certo non si risolvono così i problemi di un paese dove l’inflazione è al 40%, in cui mancano gli investimenti stranieri necessari alle infrastrutture, anche in ambito energetico. Il problema maggiore è che per anni le autorità sono riuscite a tenere sotto controllo il dissenso elargendo sussidi – su cibo ed energia – a buona parte della popolazione. Sussidi finanziati dai petrodollari.

Gli ultimi round di sanzioni imposte dall’amministrazione Trump hanno però ridotto in modo drastico le esportazioni di greggio, passate da 2,4 milioni di barili al giorno a soli 500mila barili. Con l’embargo petrolifero, Washington vuole aizzare gli iraniani contro ayatollah e pasdaran: è vero che i dimostranti urlano slogan contro il presidente moderato Rohani, ma sono anche consapevoli che la crisi è causata dall’uscita degli Stati uniti dall’accordo nucleare. Per questo, secondo i sondaggi gli iraniani sono contrari a tornare al tavolo dei negoziati.

Una posizione condivisa dai conservatori, che avranno gioco facile alle elezioni parlamentari del prossimo 21 febbraio: anziché il governo della speranza di Rohani e del ministro degli Esteri Zarif, è probabile che Bruxelles e gli altri dovranno avere a che fare con personaggi della risma di Ahmadinejad.