I kurdi iraniani rappresentano circa il 10% della popolazione dell’Iran e la seconda comunità kurda per estensione demografica dopo quella in Turchia. Per quanto negli ultimi anni le vicende di questa parte di popolazione kurda siano spesso rimaste in secondo piano, le radici dell’attivismo dei gruppi kurdi in Iran affondano nella storia del movimento di emancipazione kurdo.

Il Partito democratico del Kurdistan Iraniano (Pdki), fondato nella prima metà del 1900 per difendere l’indipendenza kurda durante la breve esperienza della Repubblica di Mahabad del 1946, è stato il progenitore del Partito democratico del Kurdistan iracheno (Kdp), Partito guidato da Masoud Barzani attualmente al potere nel Kurdistan iracheno. Il legame tra i due gruppi nasce all’alba dei tempi e non stupisce scoprire che, dopo la nascita del governo regionale del Kurdistan Iracheno (Krg) a seguito della prima guerra in Iraq, il suo territorio sia diventato un porto sicuro per i militanti del Pdki.

Il Pdki non è, però, l’unico attore della contesa tra kurdi e Iran. Oltre ad alcuni gruppi minori come il Partito della libertà del Kurdistan (Pak) fondato nel 1991 dopo la nascita del Krg che chiede la trasformazione dell’Iran in una società democratica e federale, un ruolo centrale è ricoperto dal Partito della vita libera in Kurdistan (Pjak). Nato nel 2004 e legato all’esperienza storica del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), il Partito ha posto la base d’azione politica e militare nell’area limitrofa al confine turco e, in quanto membro del Consiglio delle comunità kurde (Kck), mantiene forti legami con i gruppi curdi degli altri paesi.

Nonostante le lunga storia di mobilitazione, la presenza di un governo centrale forte come quello di Teheran e le divisioni interne hanno, per lungo tempo, indotto un apparente immobilismo di tutti i movimenti kurdi nel paese. Nel 1996, il Pdki ha dichiarato il cessate il fuoco, rinunciando alla pratica della lotta armata contro Teheran.

Al contrario, il Pjak, non ha mai firmato una formale tregua con il governo centrale. La repressione delle più basilari istanze democratiche nonché gli interessi convergenti tra i diversi paesi dell’area per il mantenimento della sicurezza dei confini hanno, però, obbligato tutti i gruppi a un generale arretramento delle proprie avanguardie politiche ed armate.

Nei primi mesi di quest’anno qualcosa sembra essere cambiato. Dopo gli scontri di Mahabad del maggio 2015 a seguito del tentativo di stupro e del suicidio di Farinaz Khosrvan e l’annuncio della ripresa delle attività da parte del Pdki nel febbraio del 2016, l’effetto combinato di repressione interna e pressioni esterne ha portato ad una repentina accelerazione degli eventi. Nei mesi scorsi numerosi sono stati gli scontri armati tra militanti kurdi e forze governative e ad essi si sono aggiunte azioni dai risvolti politici e diplomatici rilevanti: luoghi di culto kurdi come il cimitero Golestan Javeed a Baha’i distrutti dall’esercito iraniano; attentati kurdi contro membri del governo iraniano come nel caso del tentato omicidio del parlamentare Heshmatollah Falahatpishe in viaggio nel nord-est del Paese.

Ai numerosi scontri a fuoco con significative perdite da entrambe le parti, si sono aggiunti bombardamenti governativi degli avamposti kurdi di confine e, in alcuni casi, lo sconfinamento nel territorio del Krg, accusato di soffiare sul fuoco della rivolta curda in funzione anti-iraniana e filo-saudita.

Per quanto una delle cause della ripresa del conflitto tra movimenti kurdi e Teheran possa essere identificata nella competizione tra Pdki e Pjak, l’allargamento della base sociale dei due gruppi poggia principalmente sull’interdipendenza tra fattori nazionali e d’area. Dal punto di vista economico in maniera similare rispetto ad altre minoranze presenti sul territorio iraniano, i kurdi vivono principalmente fuori dei centri urbani del paese mentre la regione kurda dell’Iran ha subito gli effetti dell’abbandono economico da parte del governo centrale.

L’economia locale è segnata dall’impossibilità di accedere a carriere amministrative nel settore pubblico e dall’alto tasso di disoccupazione soprattutto tra i giovani. In questo senso un margine di speranza sembrava essersi aperto con l’elezione di Hassan Rouhani nel 2013 e la conseguente fine delle sanzioni internazionali contro l’Iran. Nonostante le rassicurazioni del presidente iraniano, ribadite durante il viaggio della metà di luglio nella provincia di Kermanshah nel Kurdistan iraniano, i benefici economici sembrano non aver ancora raggiunto il territorio kurdo.

A livello politico, la repressione governativa di tutti i governi succedutisi al potere, compreso quest’ultimo, ha dimostrato l’indisponibilità di Teheran ad aprire una discussione sui diritti sociali e politici della minoranza kurda. Nel 2015, a fronte di circa un centinaio di processi con accuse per Moharebeh (offese contro la religione e contro lo Stato), più del 60% degli imputati appartenevano alla minoranza kurda mentre numerose sono le notizie di arresti, torture e sparizioni ai danni di attivisti kurdi. Secondo i dati della Kurdistan Human Rights Association sarebbero decine le violazioni solo tra il 10 giungo e l’11 luglio 2016: esecuzioni, arresti arbitrari, ferimento di civili e danneggiamento di strutture e aree naturali.

Parallelamente, a livello internazionale il sollevamento delle comunità kurde in Turchia e in Siria contro i governi centrali nonché la lotta contro lo Stato Islamico e la disarticolazione del contesto iracheno hanno portato ad un nuovo sviluppo delle relazioni intra-kurde e alla possibilità di «contagio» tra diverse esperienze.

L’interdipendenza tra le dinamiche interne ai quattro paesi in cui il Kurdistan è suddiviso e le politiche messe in atto dai diversi gruppi politici kurdi obbliga a porre attenzione anche all’evoluzione di dinamiche apparentemente marginali per poter leggere il quadro di insieme.