Ieri in migliaia hanno preso parte ai funerali delle 25 vittime, tra cui donne e bambini, dell’attentato di sabato contro la parata delle Guardie rivoluzione ad Ahvaz, città nel sud-ovest dell’Iran.

Mentre le bare avvolte nella bandiera venivano portate a spalla da civili e militari, il ministro dell’Intelligence Alavi, dal palco, annunciava l’arresto di diverse persone sospettate di aver organizzato l’attentato. La mano non è nota: due le rivendicazioni, quella dell’Isis e quella del gruppo separatista sunnita Harakat an-Nizal al Arabi Le Tahrir al-Ahvaz.

Nelle stesse ore si rafforzava la risposta politica di Teheran, da subito indirizzata contro gli Stati uniti e i loro alleati nella regione. In partenza per New York, dove oggi si apre l’Assemblea generale dell’Onu, il presidente Rohani aveva fatto riferimento all’asse anti-Teheran, operativo fin dall’elezione del presidente Trump alla Casa bianca e finora visibile nello smantellamento dell’accordo sul nucleare civile iraniano e negli attacchi aerei israeliani in Siria: gruppi finanziati dai paesi del Golfo, accusa Rohani, «marionette sostenute dall’America che li istiga e gli fornisce i mezzi necessari».

Ieri è intervenuto anche il vice capo delle Guardie Rivoluzionarie, Hossein Salami, che ha minacciato una reazione contro Usa e Israele: aspettatevi, ha detto, una «devastante» risposta. «Avete già visto la nostra vendetta in passato. Vi pentirete di quello che avete fatto».

Gli Emirati arabi negano un coinvolgimento, mentre Washington rigira la frittata e indica in motivazioni interne (la crisi economica) la fonte del problema.