Tecnologica e indipendente, la Cina del prossimo futuro perseguirà una crescita moderata per privilegiare il consolidamento di standard di vita qualitativamente elevati senza dover dipendere dai mercati internazionali.

È quanto annunciato dal premier cinese Li Keqiang durante la sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo, il parlamento cinese che ogni primavera si riunisce per approvare gli obiettivi economici e politici dell’anno in corso.

L’ultima edizione, terminata ieri, ha coinciso anche con la ratifica del nuovo piano quinquennale 2021-2025 e della cosiddetta Vision 2035, la strategia intermedia adottata dalla leadership cinese in vista del traguardo finale: rendere la Cina una «nazione socialista grande e moderna» entro il 2050.

La strada sembra quella giusta. Sconfitti il virus e la povertà assoluta, il prossimo luglio il Partito comunista compirà cento anni, portati benissimo. Ma, come suggeriscono gli obiettivi numerici prudenti, le sfide all’orizzonte non mancano. Ostentando un cauto ottimismo, la leadership ha ripristinato la vecchia abitudine dei target fissi dopo la pausa forzata dello scorso anno.

Nel 2021, l’economia cinese dovrà crescere a un ritmo «superiore al 6%». Quanto basta – secondo Li – a sostenere «la promozione delle riforme, dell’innovazione e dello sviluppo di alta qualità», ma ben inferiore all’8,4% pronosticato dagli analisti. Questo spiega perché, in rottura con la tradizione, non ci sarà invece alcun obiettivo di crescita per il prossimo quinquennio. Troppe ancora le incertezze del contesto internazionale. Piuttosto, si cercherà di mantenere il tasso di disoccupazione non oltre il 5,5% e una riduzione dell’intensità energetica del 13,5%. Parametri che, entro certi limiti, dovrebbero permettere non solo di mantenere la stabilità sociale e raggiungere la neutralità carbonica non oltre il 2060.

Ma persino di ancorare la crescita in un «intervallo appropriato» senza dover ricorrere a rischiosi stimoli monetari e fiscali. Per Yang Wei, vicedirettore della Commissione economica della Conferenza politica consultiva del popolo, un 4,73% annuo basterà a raddoppiare il Pil pro capite entro il 2035, come promesso dal presidente Xi Jinping durante lo scorso plenum del partito. A trainare la crescita cinese sarà l’alta tecnologia, con un aumento annuo della spesa statale destinata alla ricerca e allo sviluppo superiore al 7%.

Come spiega la società di consulenza Trivium, l’importanza delle nuove tecnologie (tra cui spiccano l’IA, la quantistica e i semiconduttori) trova conferma nel ruolo attribuito all’economia digitale che nel prossimo lustro dovrà raggiungere il 10% del Pil nazionale rispetto all’attuale 7,8%. Una scelta dettata non solo dai timori per un decoupling americano, ma anche dalla consapevolezza dell’insostenibilità finanziaria del vecchio modello di sviluppo basato sugli investimenti infrastrutturali.

Infatti, se nel breve periodo i rischi vengono soprattutto da oltreconfine, sul lungo termine sono i nodi interni la vera sfida. Invecchiamento della popolazione in primis. Ecco perché «l’età pensionabile legale verrà aumentata in modo graduale, il sistema di sicurezza sociale sarà migliorato grazie ad un’espansione della copertura dell’assicurazione di base per la vecchiaia fino al 95% della popolazione», mentre verrà attuata una «politica delle nascite più inclusiva».

Che non vuol dire ancora rimuovere del tutto la «politica dei due figli», ma la direzione sembra quella. Le prospettive di un futuro calo demografico non riducono tuttavia le preoccupazioni del governo per la stabilità alimentare che, insieme alla sicurezza energetica, per la prima volta trova posto nel nuovo piano quinquennale con obiettivi precisi.

Che si parli di cereali, di microchip o di petrolio, la parola d’ordine è «autosussistenza», concetto introdotto ufficialmente lo scorso anno, quando in piena crisi epidemica, Pechino ha ribadito la necessità di fare affidamento sui consumi interni. È in questo frangente che trova nuovo slancio la riforma del sistema di registrazione famigliare (hukou) che vincola l’accesso al welfare al luogo di origine penalizzando i lavoratori migranti, ben il 40% della popolazione urbana.

Secondo il nuovo piano quinquennale, il sistema verrà abolito completamente nelle città con non più di 3 milioni di abitanti. nell’ottica di elevare il tasso di urbanizzazione al 65% e invogliare i risparmiatori a spendere di più in beni di consumo e meno nei servizi di base. Pochi giorni fa il Jiangxi è diventato la prima provincia cinese ad aver rimosso tutte le restrizioni.