È solo una coincidenza, ma si segnala nella sua nitida, infelice esemplarità. Nelle stesse ore in cui la giunta Marino decideva di spezzare il dialogo con il teatro Valle occupato, rilasciava l’autorizzazione di trasformare il cinema Metropolitan in un centro commerciale. Entrambi, il teatro e il cinema, sono due storici presidi culturali: uno sorge all’ombra della spirale di Sant’Ivo, l’altro sulla soglia della piazza del Popolo: dalle acrobazie di Borromini alle armonie di Valadier. E mentre si concede a imprenditori privati di sfruttare una storia, un’architettura prestigiose, si nega ad artisti indipendenti di offrire alla città una produzione culturale originale e innovativa.

Così va il mondo. Anche a Roma. Le amministrazioni pubbliche al mercato concedono tutto; chi del mercato non vuole sentir neanche parlare deve restar fuori, scacciato e perseguito. Un doppio regime, una doppia legalità, una doppia, ineguale giustizia. Si può vendere paccottiglia in un’antica sala cinematografica, non si può produrre e rappresentare spettacoli in uno storico teatro.

Appare ora stucchevole, oltreché inutile, ragionare fino all’ultimo dettaglio sul negoziato che nelle scorse settimane era stato faticosamente avviato tra il Comune e gli occupanti. Ma se l’esito è un ultimatum («Lasciate libero il teatro entro il 31 luglio»), resta difficile pensare che ci fosse una sincera volontà di trovare soluzioni che tenessero insieme le rispettive esigenze. E ora i margini per un accordo che salvaguardi la pluripremiata e pluriapprezzata esperienza dell’occupazione sembrano esaurirsi uno dopo l’altro, giorno dopo giorno.

Verrebbe da pensare che quest’ultima versione del sindaco Marino con l’elmetto sia una scelta necessitata, imposta. Che insomma stia subendo una pressione insostenibile da parte di poteri sovraordinati, gli stessi che con in testa i ministri Alfano e Lupi hanno dichiarato guerra a chi occupa case, caserme, fabbriche e teatri. Certo è che non sta facendo molto per resistere, allineandosi obbediente e a volte perfino zelante.

Potrebbe, con i suoi soli poteri, promuovere nuove forme di gestione del patrimonio immobiliare inutilizzato, sperimentando affidamenti e assegnazioni alle tante realtà sociali e culturali che in città sembrano le uniche in grado di fornire nuovi servizi per nuovi bisogni. Quei singolari soggetti né pubblici né privati che con successo praticano e offrono socialità e benessere. Potrebbe, Marino, ma non vuol farlo. Al contrario dei suoi colleghi di mezza Europa che volentieri accolgono e favoriscono queste nuove esperienze.

Roma preferisce trascinarsi in una bassa marea culturale, tra programmazioni pigre e ripetitive e istituzioni pubbliche ormai esauste e passivizzate, sebbene tuttora ampiamente finanziate. Invocando querula che qualche «mecenate» distribuisca mance e provvidenze, o si decida ad acquistare beni culturali dismessi. Ed è per questo che, di privatizzazione in privatizzazione, si lasciano agonizzanti gli stabilimenti di Cinecittà sulla Tuscolana e s’inaugurano con trombe e trombette i suoi surrogati di plastica a Castelromano.

In quest’avvilente scenario è quasi ovvio che non ci siano possibilità altre. Nel volontario processo di dismissione pubblica c’è posto per la sola logica commerciale. Ed esperienze come il Valle, o l’Angelomai, o il Volturno, o le centinaia di occupazioni abitative, produttive, agricole e comunitarie, non hanno diritto di cittadinanza. Tra sgomberi, intimidazioni, ricatti e tutto l’armamentario questurino, si scorge ormai con chiarezza qual è l’obiettivo: l’ordine deve regnare a Roma.