Non finirà certo l’11 agosto del 2014, l’esperienza del Valle bene comune. Ma quell’autosgombero che s’è consumato tra occhi velati e sorrisi contratti non può certo considerarsi un risultato entusiasmante. Anche al saldo dell’inevitabile malinconia dei più, dei molti che ieri mattina si sono accalcati dentro e fuori il teatro. E’ andata come l’assemblea degli occupanti ha deciso che andasse. Con un compromesso non proprio generoso verso chi per tre anni ha coltivato e nutrito una delle più esaltanti esperienze artistico-politiche. Elogiata e apprezzata in mezzo mondo, tranne che nel nostro opaco e ammuffito ridotto culturale: talmente gretto da interrompere la fornitura elettrica, nel timore il teatro non gli venisse consegnato; talmente meschino da non concedere l’ultimo angoletto rimasto, quel foyer che non a caso può tradursi anche in focolare.

Per quanti sforzi la fiducia sia in grado di offrire, non c’è altro che un futuro impegno a proseguire un negoziato, che finora non ha depositato che qualche ipotesi di collaborazione, un po’ qua e un po’ là, un po’ sopra e un po’ sotto il palcoscenico. Un negoziato che non è mai davvero cominciato e che è servito solo a dissimulare quel che non è mai stato in discussione: la fine dell’occupazione. Un esito imposto dal Comune e dai suoi mandanti governativi, ma forse in una qualche misura introiettato dalla gran parte degli stessi occupanti.

Si potrà discutere ancora e ancora a lungo se, in queste condizioni (con questi rapporti di forza), si sarebbe potuto far qualcosa di diverso. E non mancano rimpianti, amarezze e anche qualche acidità: quando ci si divide, è difficile evitare strascichi politici. C’è tuttavia un impegno dichiarato e ribadito di integrare nell’attività istituzionale del Teatro di Roma un progetto sperimentale di teatro partecipato, da affidare alla Fondazione Valle bene comune. E’ un riconoscimento dei tre anni vissuti pericolosamente in occupazione e un possibile prolungamento dell’attività fin qui svolta. E’ solo un impegno, ma certo permetterebbe di ripartire con rinnovato slancio, senza stucchevoli ipoteche legalitarie, con tempi e spazi finalmente rilassati e anche con qualche risorsa in più. E tutto ciò, addirittura, a partire da quella sede vanamente richiesta, quel simbolico foyer che potrebbe somigliare a un ritorno al focolare.

Verrebbe solo da chiedersi come mai tali impegni non abbiano depositato atti formali, quelle scansioni procedurali che sanciscono nel concreto le decisioni politiche. Normalmente, i sindaci emanano ordinanze, le giunte, i consigli approvano delibere, i dirigenti amministrativi predispongono determinazioni; e perfino i consigli d’amministrazione, come per esempio quello del Teatro di Roma, deliberano le loro scelte. Un impegno troppo impegnativo? Meglio ridiscutere tutto a settembre, ottobre, Natale, con il teatro vuoto e nelle mani dei restauratori e chissà per quanto tempo? Vedremo. Pronti a superare le nostre diffidenze, così come a confermare i nostri sospetti.

Resta in ogni caso irrisolto, anzi negato quel diritto che anche in Costituzione viene invano prescritto. E cioè la possibilità di favorire quelle iniziative sociali che svolgono funzioni di sussidiarietà. Lo stato dovrebbe farlo ma non lo fa. Manda però la polizia a sgomberare e smantellare. Preferisce consegnare tali funzioni al mercato, che di sussidiario ha ben poco, anzi sostanzialmente nulla: cerca solo vantaggi e profitti. Se il Teatro Valle non fosse stato occupato, oggi non sarebbe più un teatro pubblico ma uno spazio privato, probabilmente un centro commerciale: il tutto, ovviamente, nella piena legalità. E ministri, sindaci e assessori non sarebbero stati costretti a discutere, affannarsi, trattare.

In un tg qualsiasi un cronista ha detto che «finalmente il Teatro Valle sarà riconsegnato alla città». Sta succedendo esattamente il contrario.